La Nuova Sardegna

Brigata Sassari

La guerra a un passo dal bunker: «Ogni giorno è stato una sfida»

di Gianni Bazzoni
La guerra a un passo dal bunker: «Ogni giorno è stato una sfida»

Il tenente colonnello Mele: «Il tempo sembrava essersi dilatato»

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Sassari Il rumore della guerra mai così vicino, la prova forse più dura tra quelle vissute nel corso degli anni. Ma anche la paura con la quale convivere ogni giorno, perché la paura serve a tenere sempre alta l’attenzione e a controllare ogni minima mossa, a proteggersi dai pericoli. Sei mesi in Libano così, a portare avanti una azione sarda e italiana che ha messo in evidenza l’elevato livello di professionalità dei “sassarini”.

«Se l’attesa in trincea prima dell’assalto era lo stato d’animo dominante tra i militari della Brigata Sassari durante la Prima guerra mondiale, il riparo nei bunker in Libano è stata una precauzione necessaria per salvaguardare la vita durante i cruenti scontri tra le milizie di Hezbollah e le forze di difesa israeliane, ma soprattutto un’esperienza di estrema resilienza che ci ha costretti a convivere con la paura e l'incertezza, trovando nello spirito di corpo e nella determinazione la forza per portare avanti la missione nonostante l’incessante rumore della guerra».

Sono le prime parole del tenente colonnello Marco Mele, portavoce dei Dimonios e del contingente italiano in numerosi teatri di guerra, che riassume così i momenti più duri della terza missione della Brigata Sassari nella terra dei cedri.

Come è stata questa missione che appare dall’esterno diversa da tutte le altre compiute all’estero?

«Ha richiesto una volontà indomabile – racconta Marco Mele – . Ogni giorno è stato una prova fisica e psicologica, dove il tempo sembrava dilatarsi e la routine mescolarsi alla speranza di un cessate il fuoco imminente».

Come trascorrevate le giornate?

«Dentro e fuori dai bunker, tutti insieme i “sassarini”, tutt’altro che impotenti, hanno lavorato per contribuire attivamente alla stabilità della regione, conducendo operazioni cruciali per monitorare la fine delle ostilità, garantire la sicurezza della popolazione e promuovere il dialogo tra le parti».

Sono stati momenti davvero difficili perché avete “vissuto” la guerra. Come vi siete comportati?

«Neppure il sopraggiungere drammatico della guerra ha fermato l’impegno di pacificazione della Brigata Sassari in un Paese che porta ancora i segni di una crisi politica, economica e sociale senza precedenti. Una presenza silenziosa quella dei “diavoli rossi” che è servita a prevenire ulteriori escalation e a difendere i diritti umani».

Un compito di grande responsabilità e con rischio molto alto.

«Forte dell’addestramento in patria e guidata dall'azione sicura e illuminata del nostro comandante, il generale Stefano Messina, la Brigata non ha tradito le aspettative, tenendo fede al mandato contenuto nella risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, un compito di grande significato che va al di là del semplice mantenimento della pace e ben oltre i simboli sulla divisa che indossiamo o il basco blu che abbiamo calzato, un’emozione indicibile che si somma alla responsabilità che siamo stati in grado di esprimere sul campo».

Si può dire missione compiuta o si deve aggiungere altro?

«In un contesto di conflitto così complesso, nonostante l’esposizione a forti rischi che i “sassarini” hanno corso in una attività cruciale per gli equilibri del Medio Oriente, posso dire a nome di tutti e a gran voce “missione compiuta!”».

Gli occhi dell’ufficiale che pure ha maturato esperienze importanti in diverse missioni strategiche all’estero, si fanno lucidi e trattengono a stento le lacrime che non vogliono scivolare via. Ma la commozione c’è e si accompagna alla fierezza per essere riusciti in un contesto così complicato e difficile a lavorare ogni giorno per la pace.

«Se lacrime ci sono, sono lo specchio di una speranza sincera di pace e di un’eco profonda di fierezza, orgoglio, coraggio e dignità per un lavoro ben fatto, come i “sassarini” sono abituati a fare».

Pochi passi dopo lo sbarco ad Alghero, i primi abbracci e i saluti, i ringraziamenti di chi sa quanto anche le famiglie in Sardegna e in altre realtà italiane abbiano vissuto quotidianamente i momenti di una missione che era molto vicina alla guerra, con la Brigata che più volte è stata sotto attacco. Quello del colonnello Marco Mele è un racconto intriso di passione.

Le ultime parole per chiudere un racconto che non può sintetizzare sei mesi ma può dare l’idea di cosa è stata la missione in Libano dei “sassarini”?

«Abbiamo scritto una storia di valore e di valori, ecco questo vorrei dire in conclusione».

E quando incrocia lo sguardo di un commilitone, quel sorriso di chi testimonia naturalmente la felicità di essere finalmente a casa, il saluto è sempre quello: storico, caratteristico e stavolta ancora più vibrante: «Forza Paris!».

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