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Lo sfogo di una infermiera a fine turno: «Sento di non farcela più, mi viene solo da piangere»

Lo sfogo di una infermiera a fine turno: «Sento di non farcela più, mi viene solo da piangere»

«Mi chiedo: chi me lo ha fatto fare? Perché ho scelto questa vita? Perché continuo a sopportare tutto questo?»

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Sassari L’infermiere è il primo volto che vedi quando entri in ospedale, e spesso l’ultimo che ti stringe la mano quando ne esci. È la voce che ti spiega con parole semplici quello che non hai capito dal medico. È la mano che ti aggiusta il cuscino, ti cambia la flebo, ti chiede come stai. Non è solo aghi e pastiglie. È un ponte tra chi cura e chi soffre, tra il letto d’ospedale e il mondo di fuori, tra la solitudine e una carezza. È presenza: ascolta, spiega, rassicura.

Tiene insieme le cose. Non si nota. Ma c’è. Sempre. Anche quando i turni sono un inferno. Come in alcuni reparti dell’Aou di Sassari, come Cardiologia, Utic, le Medicine, Geriatria, dove un rosario di barelle si allunga nei lati dei corridoi. O Neurochirurgia, Pneumologia, Materno infantile con letti aggiuntivi fissi. I carichi di lavoro a volte ti schiacciano, e alcuni giorni vien solo da gridare. Come è capitato a questa infermiera.

«Davvero non ce la faccio più. Sono uscita dal reparto che mi veniva da piangere. ..non per la stanchezza quella è la solita. Ma per il senso di impotenza che ci sta schiacciando.

Eravamo in 4 con il solito reparto strapieno, pazienti difficili, cronici e casi sociali. Ovviamente barelle ovunque e le telefonate per chiedere se ci sono posti letto...sembra che ci prendano pure in giro».

«Ho corso per 7 ore senza quasi il tempo per andare in bagno ma non basta mai. Una persona ha avuto una crisi improvvisa, ho mollato tutto e sono corsa. Intanto gli altri suonavano, chiedevano farmaci, medicazioni, aiuto per alzarsi. Un delirio! ».

«E poi la beffa…un parente mi ha urlato contro perché non avevo ancora dato un Perfalgan...e aveva ragione. L’ho scordato nella confusione: ma cosa potevo fare? Non possiamo sdoppiarci. E i parenti che ci chiamano: dov’è il dottore? Quando passa la terapia? La flebo è finita, la flebo ha le bollicine... Non capiscono che siamo in pochi per quel casino. Non capiscono che non riusciamo a fare tutto. E i campanelli che non smettono mai. Il telefono che squilla senza sosta e la tipa che chiede se abbiamo posti... ancora! !? ».

«Sono tornata a casa distrutta ma ovviamente non posso fermarmi. Devo pensare ai bambini, capire se hanno fatto i compiti, prepararli per la notte… e devo pure sorridere perché loro non devono vedere quanto sono “svuotata”».

«È un incubo, ogni turno la stessa storia. Ogni volta mi dico “forse domani va meglio”, ma poi è uguale. O peggio. Sempre la stessa frustrazione, la stessa impotenza anche gli stessi sensi di colpa. E mi chiedo: chi me lo ha fatto fare? Perché ho scelto questa vita? Perché continuo a sopportare tutto questo? Non lo so più. Ho solo stanchezza. Non so se sono più una buona madre, non sono più una buona moglie, non sono davvero una buona infermiera».

«Siamo delusi. Sono anni che segnaliamo tutto questo e non cambia mai niente. Ci stiamo arrendendo. Posso continuare così? Ho scelto questo lavoro perché volevo aiutare le persone, ma ora mi sembra di non fare abbastanza». (lu.so.)

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