La Nuova Sardegna

L’intervista-la mia Sardegna

Bianca Pitzorno: «Tutta folclore e fuori dalla storia, detesto l’isola descritta ai turisti»

di Massimo Sechi
Bianca Pitzorno: «Tutta folclore e fuori dalla storia, detesto l’isola descritta ai turisti»

La scrittrice racconta l’infanzia e la gioventù vissuta a Sassari: «I giochi, le vasche, i primi flirt; Piazza d’Italia era il cuore della vita sociale»

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«Io non mi sento sarda, mi sento sassarese. Per me Sassari è una enclave nella Sardegna così diversa che, per chi è veramente sassarese come sono io, il resto della Sardegna è un paese straniero come fosse il continente». Bianca Pitzorno non usa mezzi termini quando parla della sua terra e della sua città. Nata in via Roma, vissuta in Piazza d'Italia fino ai 26 anni, la scrittrice ha fatto di Sassari il centro della sua memoria e di molte sue storie, senza mai cedere alla retorica dell'identità sarda, un concetto che non nasconde di detestare, così come tanti stereotipi sull’isola.

Se pensa a Sassari quali ricordi le vengono in mente?

«Prima di tutto Piazza d’Italia, che era il cuore della vita sociale, ma anche il posto dove andavamo a passeggio, facevamo le vasche. I bambini più piccoli giocavano a rincorrersi, noi alle medie ci divertivamo con la guerra francese, poi un po’ più grandi nascevano i primi flirt. Poi c'è il liceo Azuni. Ho frequentato in quell’edificio dalla prima media alla terza liceo. Tutti i giorni andavo da Piazza d'Italia lungo via Cagliari, via Torre Tonda, i giardini pubblici. Mio fratello si era preso l'appento (la briga) di contare quante volte avevamo fatto quel percorso nella nostra vita ed erano infinite. Se parliamo invece di profumi ricordo quelli della favata, i lumaconi, le frittelle fatte con l’imbuto. E anche la zagara dei frutteti intorno alla città».

Quanto c'è di Sardegna nei suoi libri?

«C'è naturalmente tanto, perché per tutti gli scrittori la propria esperienza è la prima base della scrittura. Ho vissuto un quarto della mia vita qui e inevitabilmente alcuni dei miei libri sono ambientati a Sassari, ad esempio una serie di libri per ragazzi è ambientata nella scuola di San Giuseppe, storie veramente successe lì. Ho scritto dannandomi l'anima la biografia di Eleonora d'Arborea, perché non c'era quasi alcuna documentazione. La Sardegna c'è sempre tanto perché è stata la mia esperienza del periodo più importante della vita».

Ritorna spesso nell’isola?

«Io vengo spessissimo in Sardegna. Ho ancora una sorella che vive qui, una gran quantità di cugini, moltissimi amici fin dalle elementari con i quali sono rimasta molto legata. La mia necessità di tornare è di vedere quelle persone, non tanto di vedere la terra, ma le persone che a differenza mia sono rimaste a vivere qui. E quando riesco a beccarla, vado alla commedia sassarese, mi fa scompisciare dalle risate».

Che cosa non le piace della Sardegna di oggi?

«Ho vissuto il momento in cui è nata la Costa Smeralda, perché proprio in quel periodo facevo la mia tesi con Lilliu e partecipavo a degli scavi a Arzachena. Ho visto stravolgere quei luoghi. Devo dire che detesto la Sardegna raccontata a fini turistici, anche in alcuni libri recenti di successo. Si inventano una Sardegna fuori dalla storia, ad uso di chi arriva nell’isola con il tutto compreso, non esce dal villaggio se non per due gite guidate e se ne torna a casa sua con un’idea di questa terra favolosa ma che poi non è quella reale».

Quali scrittori sardi apprezza di oggi e del passato?

«Apprezzo moltissimo Marcello Fois quando parla di Sardegna come nella saga dei Chironi o  in “Memorie del vuoto” sulla vita di Stocchino. Ma mi piace anche quando racconta storie ambientate nel continente, come nel suo ultimo romanzo.  Anche Toti Mannuzzu era un grande scrittore. Poi c'è stato Sergio Atzeni: “Bellas Mariposas” secondo me è uno dei libri di formazione sull'adolescenza più belli della fine del Novecento. Invece ci sono altri scrittori che offrono una descrizione della Sardegna tutta folclore, magica. Quelli non li posso sopportare. La Sardegna ha avuto una storia nell'Europa, ai tempi di Eleonora i Giudici di Arborea erano alla pari dei principi europei. E ha avuto le sue classi sociali: non solo pastori e contadini, ma avvocati, ingegneri, pittori».

Cosa consiglierebbe a un giovane scrittore sardo: partire o restare?

«Oggi è necessario avere un agente. Quando uno ha un buon agente, che viva in Sardegna o fuori è uguale, deve vivere dove si trova meglio, dove ha i suoi affetti. Questo col fatto di fare lo scrittore non c'entra niente. Attenzione però: con questa moda della Sardegna favolosa, se uno si presenta con i gambali e la berritta, anche con un testo mediocre viene guardato con più interesse di uno vestito in jeans come un ragazzo di Trieste».

Tra i tanti premi ricevuti, che posto hanno quelli legati a Sassari?

«Il Candeliere d’oro fu un riconoscimento affettuoso, nato quasi per caso, dopo la mia laurea honoris causa a Bologna. Ma il premio che ho amato di più è stata la “chiave d’oro dei cancelletti degli orti”, che mi consegnò lo scrittore Franco Enna e che mi nominava sassarese in ciabi. Forse mi ha fatto più piacere quello che non il candeliere d’oro speciale».

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