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Sandro Murru: «Gli anni ‘80? Un’epoca pazzesca. Ho scelto l’isola per i miei figli»

di Andrea Massidda
Sandro Murru: «Gli anni ‘80? Un’epoca pazzesca. Ho scelto l’isola per i miei figli»

Il dj e producer in arte Kortezman racconta la sua carriera. Dalle radio locali ai palchi di Mosca, dai dischi d’oro al doppio platino in India

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Dicono di lui che ha l’orecchio di chi ha vissuto ogni rivoluzione della musica. E che parla come suona: diretto, genuino, con quel ritmo naturale che solo chi è cresciuto tra vinili e strumenti può avere. Sandro Murru – in arte Kortezman – è uno di quei produttori che hanno fatto ballare intere generazioni, trasformando un salotto di Cagliari in una piccola centrale creativa della dance internazionale. I suoi progetti firmati Blackwood e Chase hanno scalato le classifiche di tutto il mondo. Ma la sua storia professionale comincia con la folgorazione per la black music, le prime radio libere, l’adrenalina delle serate in discoteca.

Sandro Murru, come ha iniziato la sua avventura musicale?

«La musica in casa mia c’è sempre stata. A sette anni ho impugnato per la prima volta la chitarra: vedevo mio fratello suonare e volevo imparare anch’io. Ero portato, avevo un forte senso ritmico, amavo la batteria e il basso. Mi piacevano i cantautori, ma anche i Deep Purple, i Creedence Clearwater Revival, roba così. Poi nel ’75 ho scoperto la black music e sono rimasto folgorato. Adoravo quel mondo funk con i fiati. Sono stati quei brani in stile James Brown a farmi capire che da grande volevo fare il deejay e, soprattutto, il produttore musicale».

Qualche anno dopo è scoppiata la “ Saturday Night Fever”.

«Esatto. Io ero un ragazzino, ascoltavo quella musica e a casa giocavo a fare la radio. Mia madre mi diceva sempre: “Insisti, sei portato”. Le ho dato retta e dopo un po’ mi sono ritrovato davvero a lavorare in una radio. Guardavo i grandi e imparavo. Il mio vantaggio? Sapevo mettere a tempo due dischi, così mi hanno lanciato subito in discoteca. Da minorenne. La mia prima serata è stata nel 1978, al Trocadero. E mia madre: “Appena ha finito riportatelo subito a casa, che è piccolo”».

Che ricordi ha di quegli anni?

«C’era una vivacità incredibile, un fermento pazzesco. Si aspettava il weekend per mettersi la roba alla moda e andare a ballare».

C’è un suono, un artista, un ricordo preciso che la riporta alle sue prime notti da deejay?

«Mi viene in mente “Born to be alive”, di Patrick Hernadez. E poi Giorgio Moroder, ovviamente. In quegli anni uscivano dischi bellissimi, trenta hit al giorno, e dopo sei mesi cambiavi completamente la scaletta. Alcuni però li tenevi anche un anno e mezzo, capivi subito che sarebbero stati immortali».

Negli anni ’90 nasce il progetto Blackwood.

«Suonavo chitarra e tastiere, trasferendo il mio orecchio musicale nei brani. L’arrivo dei campionatori ha permesso a me e a tanti deejay nel mondo di diventare producer. Ho provato a unire il mio lato musicale più duro al mondo black che amavo. All’estero Blackwood andava forte, in Italia meno. Poi Radio Deejay ci ha scoperti e spinti, facendoci diventare popolari anche qui. Con i miei soci eravamo pronti: producevamo un brano al mese e ci piaceva cambiare sempre, non volevamo fare i cosiddetti dischi pappagallo».

Tournée memorabili?

«Dopo il disco di platino in Portogallo e in Olanda, ci chiamarono per una settimana in Russia. Lì, dopo la fine del comunismo, la gente aveva una gran voglia di Occidente. Ci invitarono a Mosca per suonare nei palazzetti dello sport dedicandoci un’accoglienza da star del cinema»

Qual è stato l’incontro più significativo della sua carriera?

«Il mio sogno era far cantare le mie canzoni a grandi voci black. Ci sono riuscito con Jocelyn Brown, una delle migliori cantanti nere viventi».

Si è mai sentito “non profeta in patria”?

«Mah... Avrei potuto trasferirmi a Londra e invece sono rimasto in Sardegna per crescere qui i miei figli. Nonostante i limiti tipici di un’isola, non mi sono pentito. La Sardegna mi ha comunque dato l’affetto del pubblico. Migliaia di persone mi fermano per strada».

Poi dal suo studio di Cagliari, col progetto Shamur, ha addirittura conquistato l’India.

«Ho mischiato le mie basi black con voci indiane e ne è nato un doppio disco di platino in India nel 2006. Ci hanno invitato a Calcutta e Mumbai per il lancio: sei, sette interviste al giorno, la stessa scuderia di Shakira».

Guardando la scena dance di oggi, cosa le piace e cosa meno?

«Adoro la tech-house, l’elettronica raffinata. Invece la musica commerciale è ormai inflazionata: gli stessi giri armonici da dieci anni. E la trap è stata un fiammifero».

Oggi non lavora più in discoteca tradizionale, vero?

«Ora mi occupo di grandi eventi all’aperto. Quest’estate, in 60 date, ho fatto ballare oltre 200mila persone. Porto la discoteca in piazza, con tanto di ballerine e impianto super. Suono solo ciò che rappresenta il mio percorso dagli anni ’80 a oggi, remixato e riportato ai giorni nostri».

Nuovi progetti?

«Probabilmente tornerò in radio. Poi sto preparando il nuovo spettacolo per il 2026».

Un’ultima domanda: se non avesse fatto il deejay e il producer Sandro Murru che cosa avrebbe fatto nella vita?

«Il cinema. Ma non l’attore: avrei lavorato dietro le cineprese, vicino al regista».

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