Il nipote di Garibaldi racconta l’eroe dei due mondi: «A Caprera pescava aragoste con gli stracci della sua camicia rossa»
L’erede del mito del Risorgimento: «Si sentiva sardo, uno dei suoi obiettivi era lo sviluppo economico dell’isola»
Giuseppe Garibaldi non è solo l’eroe dei due mondi scolpito nei libri. Oltre il personaggio c’è una persona in carne ed ossa, e oltre il Risorgimento italiano c’è la passione per la pesca e il legame con un’isola che scelse come casa, rifugio e laboratorio di vita. A raccontarlo oggi è Francesco Garibaldi-Hibbert, pronipote del patriota e presidente dell’Associazione nazionale Giuseppe Garibaldi, che nell’intervista ripercorre il rapporto speciale tra il patriota e Caprera. Un Garibaldi più intimo, familiare, lontano dalle battaglie ma non dai suoi ideali: un uomo che viveva con semplicità, circondato dai suoi animali, dalle api, dalla cavalla Marsala, e che nutriva per la Sardegna un affetto profondo, quasi identitario. Attraverso ricordi tramandati di generazione in generazione, Francesco Garibaldi riporta alla luce un lato meno noto dell’eroe, restituendo la dimensione umana al mito.
Dottor Hibbert, cosa si prova ad essere un “Garibaldi”?
«È una grandissima eredità, ma non solo: è anche un impegno. Con mia mamma, Anita Garibaldi, da sempre sentiamo la voglia e il dovere di tramandare la storia di questo nostro antenato. È ancora oggi un personaggio molto discusso ma che allo stesso tempo provoca ammirazione».
Però al netto della solita retorica sull’eroe dei due mondi chi era Garibaldi?
«Bisogna ammettere che Garibaldi era uno abituato al comando, ma devo anche aggiungere che era del tutto disinteressato al guadagno personale, e questo si riscontra in numerose circostanze storiche. E poi è ammirato anche perché aveva tanti nemici, cioè le grandi potenze, era un uomo valoroso».
Che carattere aveva?
«Era estremamente carismatico, ma aveva un amore infinito verso gli animali e la natura. Allo stesso tempo era intollerante verso chi non eseguiva gli ordini: severissimo verso i garibaldini che disobbedivano. Poi era una persona estremamente intelligente, aveva una grandissima capacità di analisi degli scenari politici. Senza tralasciare il fatto che scriveva libri e poesie: era uno studioso che aveva una grande conoscenza della storia e dell’umanità».
Tra l’altro ha avuto una vita incredibile.
«Più si studia e più ci si rende conto del grande personaggio che era. Ha vissuto un’intera vita nel segno dell’umanesimo, nella lotta contro gli oppressori. Ancora oggi scopro cose nuove su di lui».
Ci racconti della vita del suo antenato quando arrivò a Caprera.
«Mia mamma mi raccontava che quando era lì passava tanto tempo a pescare. In quel periodo si usavano gli stracci delle camicie rosse che venivano messi dentro delle gabbie, il colore attirava le aragoste che entravano e rimanevano intrappolate. Lì a Caprera aveva tutto il suo entourage. Un altro aneddoto poco noto riguarda le sue mutande e diciamo che gli piaceva stare comodo. Le portava di seta: dopo essere stato in Cina se le fece fare sartoriali».
Anche senza armi Garibaldi si impegnò per l’isola.
«Esatto, era particolarmente interessato allo sviluppo economico della Sardegna, chiaramente con i metodi del tempo. Quando si ritirò dalla sua attività militare si dedicò principalmente a questo. Lui aveva un modello di Caprera che era agricolo e infatti coltivava. Le racconto un altro piccolo aneddoto: siccome al tempo c’era poco terreno coltivabile, fece arrivare della terra dal Continente. Poi ha costruito casa, viveva una vita molto umile in Sardegna. La sua cavalla Marsala, visse e morì con lui a Caprera. Un’altra sua passione erano le api. Posso dire tranquillamente che Garibaldi si sentiva sardo e aveva un legame fortissimo con l’isola».
Lei invece che rapporto ha con la Sardegna?
«Io da piccolo sono cresciuto tra Londra e Parigi, ma tutti gli anni passavamo l’estate a Caprera. Ho ancora il ricordo nitido di quando da piccolo atterravamo a Olbia e percorrevamo delle stradine che ancora non erano asfaltate fino a La Maddalena. Anche oggi però ogni anno veniamo qui, e non solo per le celebrazioni di Garibaldi, mia moglie ha casa a Porto Rotondo. Poco tempo fa ho acquistato una collezione di medaglie garibaldine da un collezionista di Sassari».
Se fosse ancora in vita cosa chiederebbe al suo antenato?
«Gli chiederei del suo rapporto con Mazzini e di quello con Vittorio Emanuele II. Poi mi piacerebbe riflettere sulla sua visione della democrazia. Ma quello che mi attira di più forse è l’amore e l’ammirazione che il popolo comune aveva verso di lui. E che era ricambiato».
Cosa penserebbe dell’attuale situazione geopolitica?
«Bisogna stare attenti a fare paragoni, nel contesto di allora regnava l’oppressione dei popoli. Però sicuramente i suoi valori si potrebbero applicare al mondo di oggi: lui sentiva una grossa responsabilità nei confronti dell’Italia, ma anche verso una Federazione europea e un mondo libero, infatti anche oggi è vissuto come un mito planetario. In Brasile e in Uruguay è considerato un fondatore della patria».
Al tempo, così come oggi sembra che una cosa non sia cambiata: abbiamo bisogno di un uomo forte al comando?
«Sicuramente si avverte l’esigenza di eroi, non militari perché in Italia viviamo in tempi di pace, e l’augurio è che questo continui. Mi riferisco piuttosto a una leadership stabile, che nei tempi recenti è mancata. Parlo di figure carismatiche e forti che possano tutelare gli interessi del popolo, chiaramente non di una dittatura».
Lei è presidente dell’associazione Garibaldi con cui divulgate la storia del vostro antenato, perché è ancora importante la sua figura?
«Con l’associazione cerchiamo di mantenere viva la storia e i valori garibaldini, che sono un punto di riferimento anche ai tempi nostri. Quello che viene raccontato nelle scuole non copre tutto il personaggio, ma tramite una riflessione più approfondita possiamo divulgare in maniera più completa l’incredibile storia di Giuseppe Garibaldi, che ha dedicato la sua vita al popolo, agli ultimi e agli oppressi. Nel nostro paese c’è ancora tanto lavoro da fare, diciamo che in Italia c’è la tendenza a dimenticare».
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