La crisi idrica raccontata da un tubo
Guardando il buco nero sorge spontanea una domanda: come può essere potabile l'acqua che beviamo?
Quando ci dicevano che la condotta cittadina dell’acqua era un colabrodo, non avremmo mai immaginato quali e quante porcherie possono annidarsi nello “scolapasta”. Ora è chiaro, come dimostra la fotografia scattata venerdì in via Principessa Jolanda dopo la rimozione di un vecchio tubo di ghisa. L’immagine provoca il voltastomaco e racconta più di mille parole decenni di crisi idrica. Il tubo incrostato è una delle tante arterie ostruite che attraversano il sottosuolo di una città assetata da anni, rassegnata alle restrizioni idriche provocate da guasti improvvisi.
Fino a qualche giorno fa, quel tubo trasportava l’acqua che poi finiva nelle nostre pentole, nelle nostre lavatrici, sulla nostra pelle e sui nostri capelli, nei nostri caffè al bar, nel pane che mangiamo ogni mattina. Quella stessa acqua continua in questo momento a scorrere nelle altre decine di chilometri di vecchie condotte da sostituire. Guardando la città attraverso quel buco nero sorge spontanea una domanda: come poteva essere potabile l’acqua che lo attraversava? Come faceva a non caricarsi di tutte le scorie e i metalli e la ruggine attaccate alle sue pareti per uscire, alla fine del viaggio, pura dai rubinetti delle nostre case? Guardando lì dentro è difficile crederlo. Le spiegazioni arriveranno, come sempre, perché se c’è un servizio di Abbanoa che funziona benissimo è il suo ufficio stampa. Ci diranno cose risapute: che la rete idrica sassarese è vecchia e malata, che gran parte dell’acqua immessa nei tubi viene dispersa lungo il cammino a causa delle perdite, che è difficile porre rimedio a tutto, che stanno affrontando la situazione con un piano straordinario di interventi. Almeno questa volta, Abbanoa non è la sola responsabile di questa situazione perché l’ha ereditata e risolverla non è semplice. Però è anche vero che la società è arrivata dieci anni fa. Questa scusa, insomma, comincia a fare acqua da tutte le parti.
E adesso fermiamoci davanti a quel tubo e ragioniamo. Noi utenti paghiamo l’acqua profumatamente, quando siamo morosi Abbanoa accorre e sigilla il contatore, abbiamo imparato a pazientare quando arrivano immancabili le restrizioni idriche.
Un tempo i rubinetti restavano a secco soprattutto d’estate, al punto che un tecnico di un Comune definì l’acqua in una sua relazione “il prezioso liquido stagionale”. Definizione geniale. Da qualche anno le sospensioni della erogazione dipendono dalle rotture che si susseguono durante tutto l’anno. Poi c’è il dramma della potabilità. Ci siamo abituati alle ordinanze del sindaco che vietano o limitano l’utilizzo dell’acqua. Sassari e le sue borgate, Porto Torres, Castelsardo: non c’è centro abitato grande o piccolo che non abbia vissuto questa esperienza. Abbiamo ascoltato le più bizzarre spiegazioni sull’alta concentrazione di metalli pericolosi per la salute e perfino di coliformi fecali.
Dopo esserci abituati alle differenze tra le ordinanze che consentono di usare l’acqua almeno per lavare le verdure e quelle che invece vietano anche questa è arrivata, proprio nelle scorse settimane, la novità della ordinanza che ha imposto agli abitanti del rione Latte Dolce di bollire l’acqua prima di ogni utilizzo. Perché ci sguazzavano coliformi fecali che dovrebbero nuotare nelle fogne e non si era capito come fossero finite nella rete delle acque bianche.
Ora guardiamo dentro quel tubo in via Principessa Jolanda, immaginiamo le condizioni degli altri ed è evidente che tutto è possibile nel sottosuolo. Altro che città metropolitana o città media, questo è terzo mondo. Siamo costretti a fidarci delle analisi che certificano la potabilità dell’acqua che arriva nelle nostre case. È arrivato il momento di pretendere maggiore trasparenza, non solo dell’acqua, ma delle analisi.