La Nuova Sardegna

Sassari

Esce dal coma e accusa «Mi hanno investito»

di Nadia Cossu
Giovanni Antonio Pedranghelu nel suo letto d'ospedale
Giovanni Antonio Pedranghelu nel suo letto d'ospedale

Dopo l’incidente il 36enne sarebbe stato gettato in un dirupo e abbandonato. Le telecamere hanno ripreso la vittima che saliva sull’auto di un conoscente

09 aprile 2018
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NUGHEDU SAN NICOLÒ. «Ricordo solo che stavo aprendo un cancello e che una macchina mi è passata sopra. Poi nella mia testa c’è il buio...».

Giovanni Antonio Pedranghelu, 36 anni, di Nughedu San Nicolò, è in un letto d’ospedale con ventitré fratture e un polmone perforato. Dopo essersi risvegliato dal coma ha provato a mettere a fuoco frammenti di memoria ma gli unici ricordi di quella sera in cui qualcuno lo ha ridotto in fin di vita sono due. Il primo: il momento in cui è salito sulla macchina di un conoscente; il secondo: le ruote di un’auto che lo schiacciano. Pochi ma importantissimi flash che hanno consentito ai carabinieri di avviare le indagini per tentato omicidio.

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Ma c’è di più. Secondo gli inquirenti chi ha investito il 36enne (non si sa se volontariamente o meno), e lo ha schiacciato, non si sarebbe “limitato” a questo. Forse convinto di averlo ammazzato, piuttosto che provare a salvargli la vita lo avrebbe trascinato e gettato nella stradina sottostante da un’altezza di circa tre metri. A ritrovare Pedranghelu in una pozza di sangue è stato, alle due del mattino, un giovane che rientrava nella sua casa di campagna e che ha lanciato l’allarme. Provvidenziale. Perché se i soccorsi non fossero arrivati e l’ambulanza del 118 non lo avesse trasportato subito in ospedale, il 36enne quella notte sarebbe morto.

La storia. È un sabato sera e, come spesso accade nei paesi, giovani e meno giovani si incontrano al bar. E proprio in un locale nella piazza di Nughedu si trovava anche Giovanni Antonio. «Ricordo che a un certo punto sono uscito e sono salito in macchina con una persona che conosco per andare a prendere nella sua casa di campagna due boccioni di vino» racconterà l’allevatore ai carabinieri che lo hanno sentito quando si è risvegliato dal coma. Una volta arrivati davanti alla campagna, Pedranghelu sarebbe sceso dall’auto per aprire il cancello. Cosa sia successo in quel momento la vittima non lo ricorda, «ma che un’auto mi sia passata sopra sì, questo lo ricordo bene».

Il giallo. Da questo racconto partono le indagini dei carabinieri che già avevano acquisito in ospedale le prime informazioni sulla tipologia di lesioni riportate dall’allevatore «compatibili con un trauma da schiacciamento da ruote». Vanno sul posto in cui Giovanni Antonio è stato abbandonato come un sacco della spazzatura e trovano i solchi lasciati sulla terra da un’auto, poi frammenti di indumenti e uno scarpone. Portano via tutto e si avviano verso il bar del paese dove il 36enne aveva detto di esser stato quella sera. Alcuni testimoni confermano di averlo visto e i carabinieri a quel punto sequestrano le registrazioni di una telecamera che si trova sulla piazza. La sequenza di immagini mostra Pedranghelu mentre esce dal bar e con un altro uomo (il conducente) sale su un’auto e poi insieme si allontanano.

L’altro passo che i carabinieri compiono è sentire proprio questa persona con la quale la vittima si è spostata per andare a prendere il vino. Ma le sue parole non sono quelle che i militari si aspetterebbero di sentire. «Io alle 21.30 ero già a letto, a casa mia». Un alibi, quindi, che in un attimo smonta quella che sembrava essere la ricostruzione più attendibile, almeno per gli investigatori. E cioè che, nel momento in cui Pedranghelu è sceso dall’auto per aprire il cancello, sia stato investito. Forse anche accidentalmente.

Lo scarpone e gli indumenti. E ci sono altri due elementi che rafforzano il giallo. Lo scarpone recuperato dai carabinieri vicino al punto in cui è stato trovato il 36enne appartiene al conducente della macchina, lo stesso che ha fornito un alibi per quel sabato sera. E non lo nega ai carabinieri che gli chiedono spiegazioni: «Sì, la scarpa è mia ma l’avevo persa giorni prima». E gli indumenti? Sono brandelli della camicia indossata dalla vittima. Ecco perché c’è la convinzione che l’allevatore sia stato prima trascinato e poi gettato da un muro.

La disperazione dei familiari. A volerci vedere chiaro sono anche, e forse soprattutto, i familiari di Giovanni Antonio che si sono immediatamente rivolti all’avvocato Antonio Secci perché faccia tutti i passi necessari per arrivare a scoprire chi abbia ridotto il loro caro in quello stato.

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