La Nuova Sardegna

Sassari

Ancora ergastolo per Cubeddu

di Nadia Cossu
Ancora ergastolo per Cubeddu

Confermata la condanna di primo grado per il 25enne. Lo sfogo dopo la sentenza: «Non sono stato io» 

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SASSARI. Punta il dito indice contro Marco Masala, padre di Stefano (il giovane scomparso nel nulla cinque anni fa): «Non sono stato io!» urla a quell’uomo che non si dà pace.

Sono passate le 13 da pochi minuti e gli agenti della polizia penitenziaria allontanano Alberto Cubeddu dall’aula dove la corte d’assise d’appello di Sassari ha appena confermato la sua condanna all’ergastolo accogliendo la richiesta del procuratore generale Paolo de Falco e della collega Roberta Pischedda. Sono momenti concitati, alcuni familiari dei due giovani uccisi – Gianluca Monni di Orune e Stefano, di Nule – urlano in lacrime: «Assassino, assassino». Sono i parenti di Stefano, hanno sperato fino all’ultimo che l’imputato dicesse dove si trova il corpo del loro figlio e fratello ma questa risposta Cubeddu non l’ha data ieri e, nella sua ottica, non avrebbe potuto darla prima e non potrà darla mai: «Non sono stato io», ha ripetuto più volte ieri mattina. «Subisco l’inferno per il solo fatto di essere cugino di qualcuno – ha scritto l’imputato in una lettera consegnata poco prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio – È questa la mia unica colpa».

Ma per i giudici la «colpa» di questo venticinquenne di Ozieri è ben altra, pesa più di un macigno, è una responsabilità che “vale” il carcere a vita. Perché per la corte d’assise d’appello Cubeddu è colpevole, ha cioè ammazzato, insieme al cugino Paolo Enrico Pinna (già condannato a vent’anni in via definitiva) due ragazzi come lui. Il primo, Gianluca, freddato a fucilate nel suo paese mentre la mattina dell’8 maggio 2015 aspettava il pullman che lo avrebbe accompagnato a scuola a Nuoro. Il secondo, scomparso la sera del 7 maggio, sarebbe stato “usato” dai due cugini perché con la sua auto avrebbero potuto raggiungere Orune. L’avrebbero poi ucciso e si sarebbero disfatti del suo corpo nel tentativo di far ricadere su di lui la responsabilità dell’omicidio Monni.

«Io posso guardare in faccia chiunque – scrive Cubeddu nella lettera – consapevole di non aver fatto del male a nessuno. È assurdo che molta gente si sia prodigata per provare il falso. Se io sono del tutto innocente, come sono, come può accadere una cosa del genere?».

Bisognerà attendere le motivazioni della sentenza ma è chiaro che diversi elementi hanno inciso sul verdetto di condanna all’ergastolo. In particolare le due testimonianze chiave: quella della ragazza di Orune che indicò Alberto Cubeddu – nelle foto mostratele dai carabinieri – come il giovane che la mattina dell’8 maggio vide aggirarsi per il paese poco prima del delitto. E poi quella di Alessandro Taras, che raccontò di aver accompagnato l’imputato a incendiare l’Opel Corsa di Stefano Masala vicino a Pattada, dopo gli omicidi. E di aver scoperto solo in seguito per quale fine l’auto fosse stata utilizzata. E, ancora, le intercettazioni, gli spostamenti dei due cugini, le celle telefoniche agganciate.

«Non mi interessano i soldi – ha urlato Marco Masala dopo la lettura del dispositivo – mi interessa sapere dove avete abbandonato il corpo di Stefano. Io devo poter piangere mio figlio». «Chiedetelo a Paolo Pinna» sarebbe stata la risposta delle sorelle dell’imputato intercettata da alcuni familiari di Masala.

La corte ha confermato anche il risarcimento disposto a favore delle parti civili: 50mila euro ciascuno per i tre fratelli e per il padre di Masala (tutelati dall’avvocato Caterina Zoroddu), 50mila euro a testa per i genitori e il fratello di Monni, 20mila euro per la fidanzata di Gianluca (assistiti dagli avvocati Antonello Cao, Rinaldo Lai, Margherita Baragliu e Angelo Magliocchetti) e altrettanti per uno zio di Masala, Francesco Dore.

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