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Papà Salvino fa gli auguri a Filippo Tortu: «Insegui i tuoi sogni»

di Andrea Sini
Salvino e Filippo Tortu
Salvino e Filippo Tortu

Lo sprinter azzurro ha compiuto 22 anni. Il tecnico-genitore ammette: «Allenare un campione è impegnativo, ma che emozione...»

15 giugno 2020
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SASSARI. «Nella cameretta di Filippo c’è una lavagnetta, sulla quale volta per volta scrivo un obiettivo. La prima volta scrissi -74, che erano i centesimi che avrebbe dovuto limare per scendere sotto i 10”». In casa Tortu si vive di rituali, di cose serie affrontate con disincanto, e di cose all’apparenza futili, come il tifo calcistico, considerate in maniera serissima. Filippo ha compiuto il 15 giugno 22 anni e a fargli gli auguri per primo è suo padre Salvino, che come tecnico lo ha plasmato sin dalla tenera età.

Signor Tortu, cosa regalerà a Filippo?

«Andrò a comprargli dei vecchi dischi in vinile, per far crescere la sua collezione».

Lo sprinter italiano più veloce di sempre è un nostalgico?

«No, ma gli piace la buona musica e ha scoperto che ascoltarla sul vinile dà tutta un’altra sensazione».

A proposito di sensazioni, come vive le gare di suo figlio?

«In generale bene, abbiamo i nostri rituali, ridiamo, scherziamo. Sino a 20 minuti prima delle gare sono un allenatore, poi quando lo lascio nella call room con gli altri atleti e salgo in tribuna divento un padre come gli altri: inizio a essere teso e a emozionarmi, come se fossi a una partita del Tempio».

In che senso?

«Soffro come un cane, cammino lungo la tribuna, non riesco a stare seduto. Ricordo una volta che il Tempio giocò a Renate una partita promozione, feci più chilometri dei giocatori».

Il calcio resta il primo amore, in famiglia?

«Se dicessi il contrario non sarei sincero. Ma Filippo è un vero sportivo a 360 gradi e anche il modo in cui vive anche le gare più importanti lo dimostra: in lui c’è la gioia di chi è là a giocarsela, se la gusta in maniera particolare. Non l’ho mai visto più felice di quando ha superato la semifinale mondiale, perché aveva raggiunto la finale: essere là in pista con i migliori al mondo per lui è una gioia da vivere sino in fondo, non da rovinare con la tensione».

Da allenatore, quando si è accorto di avere per le mani un potenziale campione?

«Mio padre correva, io sono stato un modesto velocista, il mio primogenito Giacomo è arrivato in nazionale. Ma io ho iniziato a dire che in lui c’era qualcosa di speciale sin da quando era bambino, e ci sono testimoni che lo possono confermare. Lui non camminava, correva; aveva muscoli definiti e qualsiasi cosa facesse la faceva bene e assimilava ogni lezione. Secondo me sarebbe stato bravo in tante discipline. E poi aveva anche tanta passione e avergliela trasmessa, onestamente, è l’unico merito che mi prendo».

Chi erano gli idoli di Filippo?

«Gli piaceva molto il francese Lemaitre, che era un lungagnone. E siccome Filippo era uno scricciolino, perché in effetti è cresciuto abbastanza tardi, noi per prenderlo in giro lo chiamavamo “Mezz-maitre”».

Com’è quella storia della lavagnetta?

«Da allievo fece 10”73 sui 100 a Baku. Comprai una lavagnetta e gliela appesi in camera. Scrissi sopra -74, che era l’obiettivo. Ogni volta che migliorava il suo personale, cancellavo e scrivevo il nuovo obiettivo. Adesso c’è scritto -35. Ed è riferito ai 200 metri».

Quanto è difficile allenare un figlio a questi livelli?

«È impegnativo, io mi dedico completamente a lui e vivo sui libri e sul computer per studiare e aggiornarmi costantemente, perché anche io devo essere al top. D’altro canto non sono più solo: a certi livelli un atleta deve avere dietro un’intera squadra di professionisti. C’è chi cura la forza, chi la partenza, chi il marketing e la comunicazione. Siamo un bel team».

Cosa augura a Filippo per i suoi 22 anni?

«Prima di tutto la salute. Dal punto di vista sportivo gli auguro di raggiungere ciò che desidera. Lui è felice quando gareggia e io quotidianamente faccio tutto il possibile per consentirgli di farlo al top».


 

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