La Nuova Sardegna

Giuseppe Manno, lo storico che per primo analizzò la rivoluzione patriottica sarda

di NICOLA GABRIELE
Giuseppe Manno, lo storico che per primo analizzò la rivoluzione patriottica sarda

Tra ideologia conservatrice e virtuosismi letterari, limiti scientifici e faziosità un’opera che ebbe il pregio di inaugurare un filone di studi contemporanei

08 gennaio 2020
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All’inizio degli anni Quaranta il panorama politico italiano e sardo aveva ormai cambiato fisionomia rispetto a un quindicennio prima. La fine della giurisdizione feudale nell’isola, l’avvio del riformismo carloalbertino, i nuovi fermenti liberali e democratici avevano prodotto una netta cesura con la prima fase della Restaurazione. Se per il resto d’Italia si poteva parlare di una nuova stagione politica, per la Sardegna sembrava davvero che fosse trascorsa un’epoca, potendosi dire ormai concluso il lungo Medioevo sardo vincolato alle dinamiche feudali. Il nodo principale che aveva provocato le fratture insanabili tra i ceti dirigenti sardi durante gli anni della Sarda rivoluzione era stato sciolto con l’editto di abolizione del feudalesimo e le polemiche che avevano caratterizzato quella stagione politica a cavallo tra Sette e Ottocento erano ormai sepolte, come buona parte dei protagonisti di quegli anni tormentati. È possibile che già nella seconda metà degli anni Trenta Manno avesse iniziato a meditare l’idea di riprendere gli studi storici e di portare a compimento il progetto di una storia sarda che arrivasse fino agli anni della Restaurazione. Nella “Storia di Sardegna” (la prima grande opera storiografica di Manno) la narrazione si era interrotta con il licenziamento di Bogino e l’avvio del regno di Vittorio Amedeo III. Proprio nella parte conclusiva dell’opera Manno aveva motivato la scelta di interrompere la sua analisi non oltre l’epoca di Carlo Emanuele III; le ragioni erano da ricercare sia nella difficoltà di raccontare eventi di cui era ancora vibrante il sentimento, sia nella presenza in vita di protagonisti di quella stagione politica che si sarebbero sentiti chiamati in causa per le loro azioni e le loro scelte, col rischio di ridare impulso a una polemica non gradita alla Corona, senza considerare anche la diffusione di «memorie sparse ed imperfette» che avrebbero fatto correre il rischio allo storico di incorrere in errori metodologici nel raccontare le vicende.

TRADIZIONE SABAUDA. Per questo, quando Manno sentì che era giunto il momento di riprendere i lavori, cominciò a raccogliere quanti più documenti e testimonianze gli avrebbero consentito di affrontare lo studio degli anni dal 1773 al 1814, quella che lui stesso definì, in una lettera al Martini, «la storia moderna nostra». Nasce così la Storia moderna di Sardegna. L’opera va inserita nella tradizione storiografica che si pone in netta contrapposizione con il giacobinismo e che riconobbe un ruolo deleterio alle idee della rivoluzione francese; tuttavia Manno sembra non allinearsi all’ideologia controrivoluzionaria europea di De Maistre, De Bonald e Burke, e appare più vicino alla tradizione sabauda che fa capo a Carlo Botta. Come Botta, Manno elogiava il riformismo illuminato di stampo paternalistico della seconda metà del Settecento, contrapponendolo agli sconvolgimenti causati dalla Rivoluzione, che aveva interrotto il processo riformatore avviato dai principi e al contempo trascinato l’Europa in un conflitto devastante. Per quanto tra i due ci fossero vent’anni di differenza, sarebbe inesatto definire Botta un modello storiografico per Manno. Questi gli era però certamente debitore di alcune linee interpretative, su tutte la visione critica per il regno di Vittorio Amedeo III, in netta contrapposizione con l’età illuminata di Carlo Emanuele III. Tra Botta e Manno è possibile cogliere analogie non solo concettuali, ma anche di tipo stilistico. I due, che si apprezzavano reciprocamente, sono assimilabili per l’approccio “letterario” alle loro opere storiche, in cui i virtuosismi narrativi prevalgono sull’analisi critico-filologica. Com’era prevedibile, l’opera sollevò molte polemiche, spaccando il mondo culturale sardo tra fautori e detrattori. Tra i primi c’erano Angius, Martini e Tola, autori delle prime positive recensioni sulla stampa isolana. Nel 1843 la Storia moderna venne recensita anche sulla rivista napoletana Il progresso delle scienze, lettere ed arti dall’abruzzese Pasquale Castagna che, pur apprezzandone l’ampia documentazione, la qualità letteraria e la potenza narrativa, ne contestava l’impianto e l’impostazione, in particolare per l’incapacità di assegnare all’azione stamentaria e ai movimenti popolari i giusti riconoscimenti. La vera risposta alla Storia moderna sarebbe giunta però solo quindici anni più tardi, con la pubblicazione dell’opera Dei moti politici dell’isola di Sardegna dal 1793 al 1821 (1857) di Francesco Sulis, docente universitario e deputato al Parlamento subalpino. Riproponendosi di seguire lo schema narrativo della Storia moderna, di cui proprio in quell’anno usciva una nuova edizione con un compendio di centotredici pagine, Sulis intendeva rivalutare il movimento angioiano partendo dalla critica stessa agli Stamenti, espressione dell’Ancien Régime, riconducendo i moti antifeudali nel più ampio alveo della propaganda democratica operata dalla Rivoluzione francese.

PAURA O OSSEQUIO. L’autore si poneva apertamente in contrasto con Manno, contestandogli in particolare di non aver trattato alcune tematiche spinose per «paura o ossequio pel dispotismo». Ancora più tardi, nel 1868, all’indomani della scomparsa di Manno, Sulis fu tra i più accorati oppositori dell’ideologia moderata e conservatrice che trapelava dalle opere dello storico algherese, contribuendo ad avviare una demolizione della sua figura politica. Al di là dei suoi evidenti limiti, la Storia moderna ebbe il pregio di inaugurare un filone di storia “contemporanea” dell’isola, che tracciò il solco per successive opere come la Storia di Sardegna dall’anno 1799 al 1816 di Martini (1852) e la Storia civile dei popoli sardi dal 1798 al 1848 di Siotto Pintor (1877); ma soprattutto, pur nella sua faziosità, fu il primo tentativo di analizzare su basi critiche l’esperienza della rivoluzione patriottica sarda.

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