La Nuova Sardegna

Emilio Lussu e i limiti politici del sardismo

di GIAN GIACOMO ORTU
Emilio Lussu e i limiti politici del sardismo

Il quarto volume delle opere complete curato da Gian Giacomo Ortu e Luisa Maria Plaisant

10 aprile 2021
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Pubblichiamo un estratto dall’introduzione a “Emilio Lussu. Tutte le opere. Volume 4”, curato da Gian Giacomo Ortu e da Luisa Maria Plaisant (Isolapalma Edizioni, 302 pagine, 28 euro).

* * *di GIAN GIACOMO ORTU

C’è uno scritto su Il Ponte, «L’avvenire di Sardegna», in cui Emilio Lussu fa una sorta di prospezione del futuro della Sardegna, a partire dalla conquista dello Statuto speciale e nella prospettiva del Piano di Rinascita. Il testo è sviluppato in un registro di scrittura alta, densa di pathos, in continua tensione tra contemplazione del passato, disincanto del presente e aspettativa nel futuro. L’avvio è un attacco frontale alle mitologie mendaci e illusorie della “sardità”: la Sardegna è «la regione più arretrata d’Europa», in conseguenza dei lunghi periodi di «vita meschina» patiti a causa delle dominazioni straniere, dell’isolamento e dello spopolamento. È questa eredità di sottomissione politica e di sofferenza economica ad avere impedito ai sardi di farsi popolo e nazione. E se la comunanza di condizione da un capo all’altro dell’isola ha pur prodotto una «unità psicologica», questa è tuttavia segnata da «complessi» atavici e divisivi. Tanto divisivi, conclude Lussu, che «noi sardi siamo tutti malamente individualisti»: «La disunione è la prima nostra impronta». Ma pur sentendo «d’essere una nazione mancata», non portiamo questo sentimento alla coscienza e non ammettiamo d’aver subito come popolo una «fatale sconfitta collettiva». Impietosa, questa autoanalisi critica va ad applicarsi anche alle «tanto decantate nostre qualità ataviche». Sentimento dell’onore, coraggio, disciplina, lealtà, fedeltà alla parola data? «Sono favole. Non siamo né migliori né peggiori degli altri».

Ma ecco che Lussu opera d’un tratto una rottura del tempo storico e una mutazione di senso, e dall’analisi acre del «noi sardi» passa all’evocazione della vita comunitaria di Armungia, con i suoi stili, leggi e valori risalenti ad epoche remote e a lungo “resistenti” al- le successive civiltà dominanti, «fino alla piemontese». Evocazione, non idoleggiamento, perché anche questa dimensione di vita comunitaria-tribale era segnata dalla divisione: fra tribù e tribù, villaggio e villaggio, famiglia e famiglia. E, comunque, si tratta di una evocazione che viene a colmare il vuoto di senso aperto dal disconoscimento del sentimento e coscienza nazionale dei sardi. Sul terreno soltanto etico e simbolico, tuttavia, perché Lussu persiste nella convinzione che il popolo sardo sia venuto alla storia soltanto con le lotte prima dei minatori e poi delle masse rurali, con le quali soltanto avrebbe «inizio la Sardegna moderna».

Quando scrivono della storia della Sardegna, gli studiosi, forestieri o indigeni, non sono forse portati a scrivere sempre e soltanto la storia dei Paesi e Stati che l’hanno dominata, Cartagine e Roma, Giudicati bizantini e Comuni italiani, Aragona e Spagna, Austria e Piemonte? Mentre, invece, è soltanto grazie alla più recente eredità dei movimenti popolari moderni, emancipatisi e rivolti al futuro, che «la Sardegna conoscerà una resurrezione, inserendo la sua vita nella civiltà italiana, europea e universale, di cui ormai è partecipe». E questa prospettiva getta oltre l’orizzonte ogni velleità indipendentista, ancor più da quando la Costituzione italiana e lo Statuto sardo, che ne è parte, hanno stabilito tra l’isola e l’intero Paese una solidarietà inscindibile e definitiva.

La chiusa del saggio merita di essere citata: «Tutto un nuovo mondo si muove, dentro di noi, ed è già alle sue prime luci certe del mondo esteriore. Vi sono molti secoli che premono e che ci spingono, oltre il focolare e la casa sprangata, oltre il nostro canto chiuso fatto di echi di lamento senza principio e senza fine. Perché non dirlo? Sentiamo che il popolo sardo, come i popoli venuti ultimi alla civiltà moderna e già fattisi primi, ha da rivelare qualcosa, a se stesso e agli altri, di profondamente nuovo e umano».

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