La Nuova Sardegna

Il lungo racconto di Mimì, storia d’amore e morte

Il lungo racconto di Mimì, storia d’amore e morte

“Vita mortale e immortale della bambina di Milano” di Domenico Starnone Protagonisti un bambino sognatore e una nonna custode della memoria

31 ottobre 2021
3 MINUTI DI LETTURA





Ci sono tre amori al centro della trama di “Vita mortale e immortale della bambina di Milano” di Domenico Starnone (Einaudi, 148 pagine, 16,50 euro), ma sono due a spiccare particolarmente: ed è tra questi che si deve districare nella prima parte della sua vita Mimì, la voce narrante che ora, dalla soglia degli ottant’anni, li rievoca e insieme rievoca il suo passato. Uno dei due amori da Mimì promana: ed è il classico sentimento idealizzante dell’infanzia, diretto a una quasi coetanea – il protagonista all’epoca sta per concludere le scuole elementari – che abita a Napoli proprio di fronte a lui. L’amico Lello, anch’esso innamorato, la chiama “la milanese”: e le poche parole che lei rivolge a Mimì, in un italiano che alle sue orecchie non presenta nessuna influenza della parlata e del dialetto napoletani, lo convincono del fatto che venga da fuori, che appartenga a un mondo geografico, linguistico, ma anche sociale, diverso dal suo. Il tragico destino della “milanese”, che morirà di lì a poco, contribuirà a consegnarla, nel cuore e soprattutto nella mente di Mimì, a un piano che non ha più a che fare con la realtà: a farne un simbolo, e un termine di paragone per le figure femminili a venire. Il secondo amore, essendone stavolta l’oggetto, Mimì lo riceve: dalla nonna materna, che vive in casa con lui, i suoi fratelli e i suoi genitori, e la cui predilezione per quel solo nipote è viscerale quanto sfacciata e, per la sua origine, misteriosa. Non si sa cosa l’abbia generata, è così e basta, se ne può giusto prendere atto. Donna poco istruita, brutta e trasandata nell’aspetto, capace di esprimersi quasi unicamente in dialetto, finisce addirittura per sviluppare con il tempo una forma di soggezione nei confronti di Mimì, primo della famiglia a frequentare l’università.

Non sarà a questo punto sfuggita la forte e voluta polarizzazione: da una parte una bambina, bellissima, che attira gli sguardi e l’attenzione di tutti, che parla nella lingua delle persone istruite, e che con la precoce morte perde consistenza materiale per diventare idea; dall’altra un’anziana, bella in gioventù ma oggi irriconoscibile, considerata una serva persino dalla figlia, che anche quand’è presente è come se non ci fosse («Mi aggirai per l’appartamento vuoto – i miei fratelli erano a scuola, mio padre al lavoro, mia madre in giro (…)», e subito dopo: «Mi affacciai in cucina in cerca di compagnia, sapevo di trovarci mia nonna»), e che utilizza la lingua del popolo. Sono questa polarizzazione, una certa, costante esplicitezza e più ancora la programmaticità del racconto (la scrittura come mezzo per conservare per sempre memoria di chi non c’è più) a frenare l’apprezzamento complessivo di “Vita mortale e immortale della bambina di Milano”. Che pure ha delle pagine notevoli: e sono quelle in cui Mimì, dovendo compilare cinquecento schede di termini dialettali per l’esame di glottologia, chiede aiuto alla nonna. Lei, che non afferra esattamente in cosa consista il suo contributo ma che sconfigge dubbi e ansie perché si sente investita per la prima volta di un ruolo centrale nella vita del nipote, sembra riemergere dalla fossa dei morti in cui, pur ancora in vita, pareva esser stata confinata: e la lingua, le parole, la cultura la renderanno eterna nell’animo di Mimì, e parte, quantunque infinitesimale, del grande quadro della letteratura.

Primo piano
Cronaca

Valledoria, svuota il conto della suocera: «A fare i bonifici ci penso io»

di Luca Fiori
Le nostre iniziative