«La mia amica Maria Giacobbe, nuorese tra due mondi»
Un ricco epistolario tra la scrittrice scomparsa un mese fa e il giornalista Salvatore Mannironi
«E ora tolgo il disturbo, devo andare a combinarmi qualcosa per cena». Chiudeva spesso così, le sue lettere serali, la mia amica Maria Giacobbe. Era nata a Nuoro il 14 agosto del 1928, viveva da metà degli anni Cinquanta in Danimarca, a Frederiksberg, una sorta di Comune-enclave dentro Copenaghen, dove si è spenta serenamente, nel sonno, la notte tra il 26 e il 27 gennaio. E’ stata un’intellettuale, una scrittrice premiata, soprattutto una donna progressista del Novecento, che si sentiva parte della comunità universale e pensava che ingiustizie, miseria, sfruttamento e tirannie fossero problemi che riguardavano anche lei ovunque si manifestassero, dalla Palestina al Vietnam.
Una vita tra due mondi. Era anche una cittadina che viveva “Tra due mondi” (come titolò la versione danese di un suo libro), da un lato perfettamente inserita nell’ambiente culturale del suo paese d’elezione (curò per Einaudi un’antologia di poeti danesi), dove era conosciuta e stimata; dall’altro, sempre attenta e lucida nell’osservare, a volte con disagio, spesso con ironia, quello che avveniva in Italia. Una donna che, nonostante i 95 anni e gli acciacchi, era giovane, con una voglia inesauribile di sapere e conoscere e una vita sociale movimentata. Emigrati sardi, ricercatori, giornalisti, amici danesi, le nipoti romane: la sua casa continuava a essere meta di visite delle quali poi riferiva nelle lettere. E attivo restava il suo collegamento con la Sardegna per iniziative che in qualche modo la riguardavano.
La nostra amicizia epistolare di emigrati nuoresi, nata tardi e per caso, ha attraversato i due anni appena passati, nel corso dei quali abbiamo conversato su tutto. A me interessava molto sapere della sua prima vita, di Nuoro e dell’ambiente in cui era cresciuta, nel quartiere Santu Predu, dei luoghi in cui erano le nostre radici. Così all’inizio parlavamo di persone che entrambi conoscevamo o in qualche modo avevamo conosciuto: la “cugina seconda” Nicolina Pais, Gavinu Murgia (“uno dei fidatissimi di mia nonna”), il professor Bianco (“da cui andavo a fare lezioni di latino in casa De Bernardi”), Giovannantonio Sulas (“Marzolino”) o Massimo Pittau (di cui di recente stava rileggendo “Credenze religiose degli antichi sardi”). Un giorno, dopo certe chiacchierate sui zistros di famiglie e stirpi nuoresi (“Noi eravamo i Cuai…”), mi disse che si stava interrogando sulle origini dell’anagrafe in Sardegna (“Risale al periodo spagnolo?”): «E’ un tema al quale ultimamente mi è capitato spesso di pensare. Anche perché - mi rivelò - , soffrendo d’insonnia, per addormentarmi cerco di ricordare, in ordine alfabetico, tutti i cognomi rigorosamente sardi che conosco: Are, Aru, Asara, Asole, Assoro eccetera eccetera…»”.
In realtà, sempre aperta e curiosa com’era degli eventi di altrove lontani, Maria preferiva piuttosto uscire dal vestito stretto della sardità e del ricordo giovanile perché, come mi scrisse più volte, con quel mondo aveva chiuso «senza alcun rimpianto»: «Non sono e non sono mai stata sentimentale o nostalgica – mi spiegò in una lettera del gennaio 2022 - . Ero quasi fuggita da una Sardegna e un'Italia dove mi sentivo molto a disagio, nonostante il successo che proprio in quel periodo avevano i miei scritti. E non mi sono mai pentita di quella scelta, anche se, naturalmente, i problemi non sono mancati. Di Nuoro (il che vuol dire soprattutto della mia infanzia e adolescenza) ho scritto, liberandomene, in alcuni miei libri». Se sollecitata, tuttavia, Maria tornava facilmente in quei luoghi della memoria, ma coi toni distaccati di chi ha traslocato anche gli affetti, poco cedendo alla tenerezza cui può indulgere il ricordo. E allora poteva rievocare il «piccolo gruppo di antifascisti nuoresi, in maggioranza avvocati, che frequentavano i miei genitori, molto perseguitati antifascisti»; «la vecchia casa della mia infanzia, al numero 2 di via Brusco Onnis di cui ho scritto (spero con lucidità) nel libro ‘Le radici’»; «il portone a tre ante col cavallino di ferro come battente». Una volta che parlammo del “Giorno del giudizio” ritirò fuori il nomignolo “Bob”: «I vecchi (allora giovanissimi) amici così chiamavano Salvatore Satta quando, credo raramente, tornava dai suoi studi in ‘Continente’. Tuo nonno Bobore Mannironi - aggiunse - e mio padre Dino erano fra quei suoi ironici amici, e io, età due o tre anni, ho cavalcato sul suo collo durante le loro passeggiate in quel di Corte o d’Isporosile”. Rispondendo a una mia curiosità, mi raccontò anche del suo incontro romano, nei primi anni Cinquanta, con Pasca Piredda, ‘la ragazza della Decima Mas’, sua parente («figlia di una cugina di mia madre»), che dai vicoli del Rosario (rione di Santu Predu) era arrivata a guidare l’Ufficio stampa e propaganda della Repubblica di Salò.
Il carattere nuorese di Maria veniva fuori ogni tanto, là dove la sincerità poteva suonare come rudezza. Nel dicembre del 2022, due giovani emigrati sardi (“lui dalla Spagna, lei dalla Danimarca”) erano andati a trovarla proponendole un videoritratto in cui parlasse di sé «per i posteri»: «Ho gradito i doni, il pane carasau, l’olio, il miele sardo – mi raccontò - , ma la videointervista l’ho rifiutata: se i posteri avranno qualche interesse per la mia persona, che si leggano in santa pace i miei libri».
Una sera della scorsa estate le chiesi conferma di un fatto di cui avevo sentito parlare da parenti. Si diceva che sua madre, Graziella Sechi, avesse chiesto all’amico di famiglia Bobore Mannironi – deputato costituente e all’epoca sottosegretario - se poteva, tramite l’ambasciata, ottenere delle informazioni su Uffe Harder, il professore danese che frequentava Maria (e poco tempo dopo ne divenne il marito). «Quell’episodio che tu definisci da ‘piccolo mondo antico’ – mi rispose – , quando molti anni dopo ne venni a conoscenza, mi dispiacque e irritò enormemente. Mia madre era una donna colta, intelligente, coraggiosa, ma in questo caso si dimostrò ancora troppo… non saprei come definirla.. Convenzionale? Borghese? Sanpietrina (ossia, santupredina, del quartiere Santu Predu di Nuoro)? Comunque, attraverso Bobore le informazioni sulla famiglia Harder arrivarono (a mia insaputa) e non poterono che essere rassicuranti. Ma se anche fossero state diverse, e io lo avessi saputo, mia madre sapeva benissimo che avrei fatto ugualmente ciò che avevo deciso di fare».
Negli ultimi sei mesi, la salute dava sempre più problemi a Maria. Soprattutto la maculopatia che le rendeva molto difficile la lettura: «Gli audiolibri? Non mi interessano – mi rispose una volta - . Thomas, mio figlio, mi ha portato un ipad nel quale potrei trovare qualcosa da ascoltare… ma non fa per me. Preferisco, ogni mattina, mentre bevo il primo caffè, leggere i titoli del giornale Politiken al quale sono abbonata; poi leggo qui dal pc, alla giusta distanza e coi caratteri ben ingranditi, alcuni giornali anche italiani; durante il giorno ascolto la radio danese. Mi annoiano, e perciò non le vedo, le trasmissioni di puro intrattenimento, mentre ho scoperto che la sera posso avere ottimi programmi su temi storici, politici e dibattiti da Rai Storia, Rai Scuola e altre. Non potendo più leggere molto, poter ascoltare conferenze di specialisti su argomenti che mi interessano è un’ottima soluzione per il mio desiderio di sapere di più e non addormentarmi intellettualmente». Maria e la guerra Il conflitto Russia-Ucraina ha occupato diverse nostre conversazioni: «Vivo con angoscia questa nuova, ingiustissima guerra – mi disse il 28 febbraio dell’anno scorso – e dovendo scrivere qualcosa per la ristampa di un libro sui bombardamenti di Cagliari, non mi sono trattenuta da aggiungere poche righe sull’attualità di questi giorni. Te le mando, sperando anche di trovarti dalla mia parte e non dalla parte di quelli (alcuni dei miei vecchi amici) che trovano che ‘ tutto sommato la Russia non ha torto perché…’, etc etc.».
Pochi giorni dopo, ancora più esplicita, mi inviò la sua personale rilettura della poesia “Che i più tirano i meno è verità” di Giuseppe Giusti, con la quale ironizzava su certo pacifismo a ogni costo: «E poi mi saprai dire come stai/con quattro indiavolati a massacrarti/e duecento citrulli a chieder pace». Il 14 ottobre scorso si scusava in anticipo: «Perché da sabato (il 7, giorno dell’attacco di Hamas in Israele), in aggiunta ai malanni dell’età, quasi a paralizzarmi anche nella volontà c’è stata e c’è questa orribile dimostrazione della umana bestialità (chiedendo scusa alle vere bestie…) prima dai terroristi di Hamas e poi dal governo legale israeliano.… Forse ti scriverò più tardi se riuscirò a essere meno triste». E pochi giorni dopo: «La carneficina nella Striscia di Gaza continua e la mia salute è come può essere quando non è buona alla mia ormai tardissima età…». «E’ giusto che i ragazzi delle scuole imparino dell’orrore della Shoah e ne conoscano le radici – mi scrisse poi il 29 novembre - . Contemporaneamente, sarebbe giusto e indispensabile che imparassero a non dividere inesorabilmente il mondo in buoni e cattivi, in Noi e gli Altri, in bianchi e neri, tanto per semplificare. E’ importante la capacità di ascoltare prima di rispondere, nei rapporti tra privati e poi in quelli fra popoli, Stati e gruppi politici. Se oggi fossi la giovane ‘maestrina’ che sono stata, farei dell’arte del dialogo il perno di tutto il mio insegnamento».
La voce di Maria. Per due settimane non ci siamo più sentiti. Il suo silenzio mi preoccupava. Così per la prima volta ho chiamato il suo telefono di casa, a Frederiksberg. Dopo pochi squilli ha risposto una voce quasi giovanile, forse in danese perché non capivo. Ho detto chi ero e ho domandato se potevo parlare con Maria Giacobbe. «Sono io Maria!», ha esclamato. Come stai, le ho chiesto. «Sto male, Salvatore, mi sa che sono arrivata alla fine, mi tiene un filo sottile, non so neanche se arrivo a Natale…». Respirava a fatica e mi ha avvertito: «Parliamo poco, poi devo chiudere perché non ce la faccio». Sono riuscito appena a dire mi dispiace, mentre lei mi toglieva dall’imbarazzo riportando tutto all’ineluttabilità delle cose: «D’altra parte, prima o poi la vita finisce», ha detto solo con un po’ di tristezza. Poi ha ripreso col suo solito entusiasmo e mi ha chiesto della famiglia e di cosa avrei fatto a Natale. Non si capacitava del mio continuo ritornare a Nuoro e del fatto che non riuscissi a recidere il legame con quel luogo, come invece aveva fatto lei: «Siamo legati allo stesso posto, quasi allo stesso quartiere – mi ha ricordato - e siamo alberi con radici che restano salde. Ma abbiamo anche le foglie, e le foglie si staccano e volano via…». In quella voce lievemente continentale, priva di inflessioni regionali, da qualche recesso remoto ogni tanto risaliva, ovattato, il timbro della sua nuoresità perduta. Mi ha riferito – e sembrava riderci su - che la casa nuorese di suo zio Raffaele, in via della Pietà, era stata venduta e il fatto era finito su un giornale: «Hanno scritto, figurati, che quella era casa mia e che dentro c’erano ancora le bambole con cui giocavo….».
Continuava a raccontare, come se tutto il resto non ci fosse: «Le mie nipoti mi hanno chiesto se a Nuoro ci sono edifici realizzati da mio padre, che era ingegnere ed anche architetto… Ho detto di no perché durante il fascismo a lui era impedito di lavorare. Ma c’è una casa che ha fatto lui, in via Deffenu, poco dopo la prefettura, era la casa di Mariangela Maccioni e Raffaello Marchi mi ricordo che all’epoca ci passai lunghe ore… Potresti mandarmi una foto di quella casa quando vai a Nuoro?». Era sempre Maria, insomma, che guardava avanti dandosi una prospettiva, sempre fiduciosa. Alla fine ci siamo salutati, ci siamo scambiati gli auguri. Mi ha rassicurato, ci saremmo risentiti con l’anno nuovo. Il 3 gennaio, con la promessa mantenuta, è arrivata la mail: «Caro Salvatore, ti scrive Amalie, mia nipote, sotto dettatura perché io non ci vedo quasi più. Ti ringrazio di tutto, in particolare per le belle foto della casa Maccioni-Marchi a me tanto cara. Un abbraccio affettuoso, Maria». E’ stata la sua ultima lettera. Il 27 mattina, la notizia che era morta mi è arrivata con un messaggio su whatsapp da Nuoro. L’ho immaginata che andava via sorridendo, come in fondo alle sue mail: «Ora tolgo il disturbo, devo andare a combinarmi qualcosa per cena».