Ezio Mauro: «La mia indagine sui misteri sulla morte di Lenin. Putin? Molto più vicino a Stalin»
L'ex direttore di Repubblica a Cagliari riceve il Premio Lussu per il libro sul leader dell'Urss
Ezio Mauro la Russia la conosce eccome. Per anni è stato corrispondente da Mosca di Repubblica. Una passione che negli anni, quando è tornato in Italia per dirigere prima la Stampa e poi la stessa Repubblica, non è mai venuta meno. E a quella passione, che - racconta lui - i suoi amici definiscono «un’ossessione» -, ha dedicato un libro, “La mummia di Lenin” (Feltrinelli), un viaggio storico e simbolico che ricostruisce la malattia, la morte e l’imbalsamazione del padre della Rivoluzione russa. Un libro che oggi a Cagliari riceverà il Premio Lussu per la Saggistica edita.
Mauro, cosa l’ha spinta a scrivere questo libro?
«Ho sempre avuto molta attenzione verso quel mondo. Quando arrivai a Mosca alla fine del 1987 c’era questo mistero intorno al mausoleo di Lenin, al referto dei 23 medici al suo capezzale, che ai tempi fu sequestrato dalla polizia. Un segreto di Stato che sarebbe dovuto rimanere tale per 75 anni, ma la nipote chiese di prorogare fino ai cento. Il termine è scaduto ma oggi non c’è ancora la possibilità di consultare quel documento».
E lei si è messo a indagare.
«Dove c’è un mistero c’è spazio per un’inchiesta giornalistica. I miei amici mi prendevano in giro, dicevano che avevo un’ossessione. Io ho raccolto materiali, libri, diari. E poi in questi anni in tanti hanno parlato: la moglie, la sorella, il fratello. Io ho cercato di ricostruire la vicenda e allo scadere del secolo mi è sembrato giusto raccontare la storia di Lenin nel periodo della malattia, arrivando alla morte e alla imbalsamazione. Un esperimento scientifico che venne portato a termine per la prima volta dall’anatomista Vorob’ev».
In questo romanzo prevale lo scrittore o il giornalista?
«Io non sono uno scrittore, ho lavorato con metodo giornalistico, la mia è una indagine di quel tipo. E ho cercato di scriverlo secondo il tono che la vicenda richiese, che è quasi sacrale».
Nella Russia di oggi cosa rappresenta il mausoleo di Lenin?
«Dopo la caduta dell’Urss quel monumento, quel corpo sono diventati incongrui. Rappresentavano un’altra epoca, erano il simbolo di qualcosa che non c’era più. Ma da un lato la superstizione e dall’altro la prudenza politica hanno fatto sì che il mausoleo non venisse spostato. Lo stesso Putin disse: ci sarà tempo per fare questa cosa. Perché Putin, per quanto ripudi il comunismo, si riconosce nella grandeur di quell’esperimento politico, vorrebbe replicarlo, rilanciarlo».
Il testamento di Lenin fu reso pubblico solo dopo il 1956: se fosse andata diversamente crede che la storia avrebbe avuto un altro corso?
«Lenin aveva sviluppato una certa resistenza nei confronti di Stalin, lui parteggiava per Trotsky. Gli chiese di fare il suo vice, ma Trotsky rifiutò. Lenin cercò di bloccare il cammino di Stalin, provò a farlo deporre dalla carica di segretario generale. Quello è stato il momento in cui la storia avrebbe potuto deviare. Tanto che dopo la morte la moglie di Lenin, non in quanto moglie ma come esecutrice testamentaria, chiese che il testamento venisse letto in pubblico. Invece, la lettura avvenne solo davanti al Consiglio degli anziani e per anni il popolo non ne seppe nulla».
Sono più le similitudini o le differenze tra la Russia comunista e quella di Putin?
«Soffermiamoci sul rapporto con le repubbliche. Con l’Ucraina per esempio. Putin è stato il primo leader a criticare Lenin per avere ritagliato l’Ucraina come una costruzione artificiale nella carta geografica dell’Urss. Putin è molto più vicino alla concezione di Stalin, che voleva Bielorussia, Transcaucasia e la stessa Ucraina all’interno della Grande Russia. Lenin era contrario, voleva le repubbliche autonome e indipendenti. Fu questo il loro ultimo scontro nel 1924 e grazie all’appoggio di Trotsky prevalse Lenin. Ora siamo di fronte a un Putin che riesuma la Grande Russia di Stalin».
A Cagliari riceverà il premio Lussu, intitolato al grande intellettuale antifascista.
«Lussu fa parte di una cultura che per me è un punto di riferimento. Una cultura politica che ha avuto poco peso e poco spazio nella vita politica italiana, ma un ruolo importante dal punto di vista civile e morale nella vita della Repubblica».
Qual è la cosa che oggi più la preoccupa in questo mondo che pare privo di leadership?
«Diciamo che la storia ci sta giudicando. Noi lasceremo ai nostri figli un mondo molto più insicuro di quello che ci avevano lasciato i nostri genitori, che pure arrivavano dalla guerra e dalla dittatura. È il fallimento di una generazione. Quella dei nostri padri la potremmo definire costituente, hanno passato gli anni a creare istituti di garanzia, corti internazionali, istituti sovranazionali per proteggerci da noi stessi. Oggi dobbiamo prendere atto che tutto quel sistema di garanzia è andato in tilt. Bisognerà riscrivere le regole della coesistenza. In Ucraina e Medioriente sono saltate le regole del vivere insieme, della definizione del bene e del male. Dobbiamo ricominciare daccapo. Questa è la portata della guerra, che non è limitata al territorio dove c’è il fronte, ma oggi ci sono valori e ideali in cui diciamo di credere che sono sotto attacco, che sono diventati un bersaglio».
