Omicidio Giobbe: l’accusa in Appello chiede l’ergastolo per l’imputato Orotelli Il nipote della vittima in primo grado era stato condannato a 22 anni
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Orotelli È iniziata ieri in Corte d’assise d’appello a Sassari la discussione del processo di secondo grado per l’omicidio di Esperino Giobbe, l’allevatore 77enne di Orotelli ucciso nella sua azienda agricola il 17 ottobre di quattro anni fa. L’imputato, Gian Michele Giobbe, 42 anni, nipote della vittima, era stato condannato in primo grado a 22 anni carcere. Davanti alla Corte presieduta da Maria Teresa Lupinu, a latere il giudice Giovanni Delogu, il sostituto procuratore generale Andrea Ghironi ha chiesto la condanna dell’imputato all’ergastolo, la stessa sollecitata in Corte d’Assise a Nuoro. Secondo la pubblica accusa si era trattato di un delitto d’impeto, finito con 17 colpi inferti alla vittima con una spranga. Il movente dell’omicidio andava ricercato in questioni familiari legate alla divisione di alcuni terreni. Pomo della discordia, proprio l’azienda di Su Filighe che stando alle dichiarazioni di Sebastiano, fratello dell’ucciso, era stata intestata a Esperino ma pagata da lui e dalla sorella Andreana. Questa, prima di morire, aveva lasciato in eredità la sua parte di possedimenti, compresa quella dell’azienda in località Sa Serra, al nipote Gian Michele. Fatto che – secondo Ghironi – aveva spinto la vittima a fare una donazione a favore delle figlie. Proprio il giorno prima che venisse ucciso, l’allevatore aveva ricevuto dallo studio notarile l’appuntamento per concludere l’atto. La mattina del 17 ottobre 2020 non è escluso che Esperino Giobbe ne avesse parlato con Gian Michele e questi, vedendo sfumata la possibilità di ereditare quei terreni lo avrebbe ucciso. A rafforzare la tesi accusatoria l’atteggiamento dell’imputato una volta arrivato nell’azienda dopo essere stato sollecitato dalla zia e dalla cugina, disperate per il mancato rientro a casa di Esperino. Lui era entrato nel recinto dove c’erano ancora le vacche, e dopo averle fatte uscire aveva scorto il corpo dello zio. Attorno a lui c’era tanto sangue, ma anziché avvicinarsi e prestargli soccorso, come avrebbe fatto chiunque vedendo un parente a terra, era tornato indietro e aveva detto alle due donne che era morto. Secondo il sostituto procuratore generale non poteva saperlo da quella distanza. Quanto alla traccia ematica trovata sulla tomaia della scarpa dell’imputato, secondo l’accusa era possibile che fosse gocciolata proprio mentre trascinava il corpo della vittima. Ieri hanno discusso anche gli avvocati di parte civile, Gianfranco Flore e Giuseppe Mocci. A metà novembre la parola ai difensori dell’imputato, Lorenzo Soro e Mario Pittalis. (k.s.)