La Nuova Sardegna

Cagliari

Coronavirus: la vita in lockdown di Ovidio, l'eremita di Capo Malfatano

Mauro Lissia
Ovidio Marras, alle sue spalle la spiaggia di Tuerredda molto affollata d'estate
Ovidio Marras, alle sue spalle la spiaggia di Tuerredda molto affollata d'estate

L'agricoltore che finì sul New York Times per aver bloccato il grande resort di Tuerredda racconta la sua quarantena

21 aprile 2020
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Ma quali decreti? Per lui il distanziamento sociale è una scelta di vita che risale all’infanzia: la quarantena come destino, la natura selvaggia intorno alla sua casa spartana, gli echi del mare di Tuerredda e Malfatano, la salsedine, i profumi della campagna, gli stessi che sentiva da bambino. Dispositivi di protezione? Il lentischio e il mirto, latte di capra la mattina e pasta in bianco la sera. Niente pranzo a mezzogiorno: «Rallenta il lavoro». Il suo furriadroxiu, un microcosmo autosufficiente concepito come avamposto di un’umanità che non urla, non corre, non segue le economie del mercato, si muove lenta in simbiosi con gli altri abitatori dell’ambiente. Ecco di nuovo Ovidio Marras, novant’anni di solitudine cercata e voluta, due cani e tre gatti a ricordargli che c’è vita oltre se stesso, l’amatissima nipote Consolata a far da tramite tra questa figura scolpita nel paesaggio e il mondo, da dieci anni uomo simbolo di un passato che non ama il presente. Se le città si sono arrese al silenzio che avanza, nella meravigliosa costa di Teulada lo scenario è rimasto quello di sempre e Ovidio ne fa parte. La sua cucina, un quotidiano aperto sul tavolo al centro della stanza ingombra di attrezzi, tegami di rame, sgabelli. Ovidio sta in piedi e legge senza occhiali titoli e testi sulla pandemia: «Un metro fra me e gli altri? Chilometri ci sono. Il contagio? E chi mi contagia, qui?».

E già, chi lo contagia? Quando nel 2010 gli hanno offerto cifre spaventose per cedere la terra di famiglia alla Sitas, un gruppo di grandi nomi dell’alta finanza, a proteggerne le scelte c’erano gli anticorpi della sua storia: «È casa mia ed era casa di mio padre, non vendo». Così oggi l’uomo che ha fermato il cemento a cinque stelle, il resort “dei padovani” destinato a specchiarsi in uno degli scenari marini più incantevoli della Sardegna, il piccolo agricoltore finito sul New York Times per non essersi piegato alla modernità, paure no, proprio non ne ha. Certezze invece sì, una su tutte proiettata sull’angoscia che condiziona in questa primavera disgraziata l’esistenza di milioni di persone: «La pigrizia, il virus più pericoloso è quello. Gli uomini non hanno più voglia di lavorare, lasciano la terra, abbandonano la campagna. È per questo che arrivano le malattie, queste strane malattie... colpa dell’uomo, la colpa è sempre dell’uomo».

Inutile parlargli di precauzioni, di prudenza nei contatti, di quel principio di cautela innato negli uomini come lui, che rinunciano a qualsiasi comodità per affidarsi alla campagna: «La pandemia l’ha incuriosito molto – racconta la nipote – ma in fondo per mio zio non è cambiato nulla, non vedeva nessuno prima e non vede nessuno adesso. Comunque sia – sorride Consolata – non sarebbe stato facile fargli indossare mascherina e guanti di lattice, è un uomo che vive a modo suo, se una cosa non gli va vene, non gli va bene e basta». Per Ovidio la parola virus ha un solo significato: minaccia. E per chi vive da quasi un secolo dentro un ecosistema immobile, il cambiamento suona già come minaccia. L’aveva capito quando, ormai dieci anni fa, gli eleganti immobiliaristi della Sitas avevano bussato alla sua porta per offrirgli l’affare che l’avrebbe reso ricco: addio furriadroxiu, largo ad uno di quei grandi resort che d’estate vivono fin troppo e d’inverno si trasformano in deserto. Tutt’attorno decine e decine di ville principesche, strade, illuminazione a pochi passi dal porto fenicio di Malfatano, sul delicatissimo lembo di sabbia sotto la storica Tuerredda.

Ovidio ascoltò con attenzione e la risposta fu secca: «Resto qui, non me ne vado» Senza rabbia, senza parole ostili: «Hanno comprato un pezzo di terra, l’hanno pagato – riferì ai cronisti – è roba loro, facciano quello che devono. Ma io resto qui perché è qui che sono nato e qui morirò». Tutto cambiò d’improvviso, trasformandosi in una battaglia giudiziaria, quando l’impresa modificò il tracciato dello stradello che conduce a casa Marras da sempre. Una ruspa cancellò una storia di famiglia e tanti ricordi: un insulto, per Ovidio. Ma soprattutto un cambiamento, quindi una minaccia. Il seguito della vicenda è scritto negli atti giudiziari: la famiglia Marras ha vinto in tutti i gradi del giudizio, Ovidio non ha arretrato di un passo ed è diventato il Che Guevara dell’ecologismo, la parte di hotel costruita sul tracciato dello stradello va demolita come ha stabilito il tribunale. Nel frattempo - agosto 2018 - travolta dai giudizi amministrativi richiesti da Italia Nostra, la potente Sitas è fallita, lasciando edifici al grezzo e arredi che i ladri hanno saccheggiato. Cinque stelle di desolazione, le imprese di Teulada che reclamano il dovuto, un’area prossima al mare devastata irreparabilmente. Oggi Ovidio non parla volentieri di quella storia che l’ha reso celebre e amato, malgrado l’età è un uomo che guarda al presente. Il fisico regge quanto le sue convinzioni, il lavoro non manca: «Non bisogna abbandonare la campagna, io non la lascerò mai».

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