La Nuova Sardegna

Olbia

la testimonianza 

«Io, deportato a Mauthausen»

di Dario Budroni
«Io, deportato a Mauthausen»

Ennio Trivellin fu internato a 16 anni. La sua storia è diventa un libro

26 febbraio 2018
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OLBIA. Gli scheletri possono camminare e se costretti possono anche spingere un carretto pieno di cadaveri. Ennio Trivellin li ha visti. E se li ricorda benissimo, come se i loro sguardi persi nel vuoto li avesse incrociati soltanto ieri mattina. «Certe cose non le dimentichi mica, rimangono impresse nella mente e non se ne vanno più. Quegli uomini erano davvero degli scheletri ricoperti di pelle. Camminavano e trasportavano un mucchio di persone morte, sistemate dentro alcuni carretti. Terribile». L’arrivo nel campo di concentramento di Mauthausen, per Ennio Trivellin, è stato molto più di uno choc. Cose che solitamente si vedono nei film che trasmettono in tv il giorno del ricordo della Shoah. Ma l’unica differenza è che Ennio Trivellin non fa l’attore. Nell’autunno del 1944 aveva 16 anni ed era un ragazzino che, nella sua Verona, con coraggio aveva deciso di schierarsi dalla parte dei partigiani. Lui stesso era diventato un partigiano, insieme a un gruppo di amici studenti. Per questo era stato arrestato, interrogato e spedito nella zona nord dell’Austria, prima a Mauthausen e poi nel sottocampo di Gusen.

L’inferno di Trivellin. Ennio Trivellin, classe 1928, è sbarcato in città per raccontare la sua esperienza. «Ricordo bene anche il giorno dell’arresto. Mi ero unito ai partigiani e col mio gruppo volevamo salvare i ponti di Verona, che i nazisti volevano far saltare. Una volta catturato, era poi scattato l’interrogatorio. Soltanto molti anni dopo ho capito che quel tedesco che mi aveva interrogato in realtà era Erich Priebke». Dopo un periodo a Bolzano, dove era stato rinchiuso anche il padre, Ennio Trivellin era stato poi trasportato a Mauthausen, in treno. «Eravamo in 70 dentro ogni carro, sporchi e infreddoliti. Indossavo una divisa bianca con le righe azzurre. Ci avevano cucito sopra un triangolino rosso, che era il simbolo degli oppositori politici». A Mauthausen, all’ombra dei comignoli che sbuffavano fumo e cenere umana, Trivellin aveva lavorato un paio di giorni in cava. «Ci consumavano di lavoro. E se ti fermavi partivano subito le legnate. Invece a Gusen ho lavorato in una fabbrica per l’aeronautica. La sveglia era alle 5 e per colazione ci davano una brodaglia. Poi lavoravamo per 12 ore di fila». Nella primavera del 1945, infine, l’arrivo degli alleati. «Avevamo visto lunghe colonne di soldati. Pensavo fossero altri tedeschi arrivati per ucciderci. Quando ho visto un uomo di colore, ho capito che erano americani».

Trivellin a Olbia. Trivellin conosce bene Olbia. Ci ha vissuto e lavorato parecchi anni ed è anche il nonno di Riccardo Fois, il giovane olbiese che fa l’allenatore di basket negli Stati Uniti. Venerdì è stato il protagonista di un incontro in biblioteca, con un reading letterario degli studenti del Panedda. Poi è stato presentato il libro «Come passeri sperduti», che la brava giornalista dell’Arena di Verona Paola Dalli Cani ha scritto attorno alla sua figura. Il giorno dopo, invece, un incontro al museo con gli studenti delle superiori.

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