La Nuova Sardegna

I volontari, gli altri ostaggi della pandemia

Gianni Bazzoni
Volontari, immagine di repertorio
Volontari, immagine di repertorio

25 ottobre 2020
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Lo schermo e la mascherina nascondono quasi totalmente il viso. Non si vede la faccia, solo gli occhi che sembrano parlare. Tute bianche o colorate, bardati così anche per dodici ore continuate. Spesso in fila, lunghe attese solo per fare visitare un paziente o anche per riavere indietro l’ambulanza. Ambulanza che resta in “ostaggio” fino a quando non si libera un posto e il servizio arriva a conclusione. Se la temevano questa seconda ondata i volontari delle associazioni che fanno capo al 118, perché in fondo la prima doveva servire ad assestare un piano per contrastare il nuovo attacco del virus. Ma ora è peggio di prima.

Sono ragazzi e ragazze con laurea o iscritti all’università che rinunciano a tanto per andare a fare volontariato. Hanno diritto a un rimborso che alla fine neanche guardano. Il rischio è diventato sempre più alto. E anche le conseguenze che hanno portato diversi volontari a rinunciare alla missione: sono stati messi a scegliere tra il lavoro e il volontariato. E ovviamente, in questi casi, c’è poco da discutere. Se il datore di lavoro ti fa notare che quando vai a fare il volontario e poi torni rischi di portare il virus in azienda, nel negozio, o in ufficio e ti chiede di decidere cosa fare, beh allora il volontario si ferma. Via la tuta e la mascherina, la missione finisce perché sei senza rete. Perdere il lavoro di questi tempi, con la disoccupazione drammaticamente aggravata dalla pandemia non si può. La maggior parte sono giovani, sono abituati a combattere e a stare in prima fila per aiutare gli altri. Ma gli effetti della pandemia hanno scombussolato tutto, rotto equilibri che sembravano solidi.

È un patrimonio che si perde. Ed è un brutto segnale per chi governa la Sardegna e i territori comunali. Il primo pensiero di pensare di limitare le attività dei giovani, dalla scuola ai punti di ritrovo, dalle palestre alle attività sportive, è uno sgarbo a tanti ragazzi e ragazze che si spendono per il prossimo. Non è vero che tutti se ne fregano, che non usano le mascherine, che non sanno stare senza fare mucchio. Il mondo del volontariato è il fronte reale, ci sono tanti giovani che hanno scelto di mettere avanti prima gli altri. Si chiama solidarietà. Ma ora succede anche questo, l’assurdo. Hanno fatto tanto, sono stati attivi anche nelle strutture comunali di coordinamento dell’emergenza per assistere la popolazione. Hanno montato strutture da campo dove è stato necessario e allestito i presidi di pre-triage negli ospedali quando qualche politico diceva che erano “inutili tende da circo”, le hanno piazzate anche nelle carceri. Hanno avuto incarichi nella distribuzione dei dispositivi di protezione individuale (ricordate quando andavano a distribuire mascherine in giro), sempre pronti con straordinaria generosità. E ora? C’è chi sta gettando la spugna, non se la sente più di rischiare. Perché capita di intervenire per un incidente o una caduta banale e poi scopri che il paziente era positivo al Covid-19. Chiedi di fare il tampone e ti devi mettere in fila, aspettare, saltare il lavoro. È così che finisce una storia.

I volontari se ne vanno perché si sentono abbandonati, perché niente è più come prima, il sistema è disorganizzato e senza regole valide. Per una volta il Governo, la Regione e i sindaci dovrebbero pensare a incoraggiare i giovani non a perseguitarli con minacce, chiusure e sanzioni. Si chiama dialogo responsabile, vale come opportunità di crescita. Così si salva un patrimonio che altrimenti si perde per sempre.

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