La Nuova Sardegna

Cognomi e Consulta, una libertà che fa crescere il Paese

di VANESSA ROGGERI
Cognomi e Consulta, una libertà che fa crescere il Paese

L’intenzione è rendere “giustizia” anche al cognome materno, ovvero alle proprie radici - IL COMMENTO

03 maggio 2022
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Quando in prima elementare ho imparato a scrivere il mio nome, ricordo di aver provato una strana sensazione. Mi sono riconosciuta nelle letterine che componevano il mio nome e il mio cognome, è stato come vedermi dall’esterno, come se quei piccoli confini grafici definissero il mio essere al mondo in maniera nuova, comprensibile all’intelletto soltanto in parte. Io sono il mio nome: si tratta di un processo naturale di identificazione che ti rimane dentro per tutta la vita.

Sono consapevole che per tutta la vita il mio nome rappresenterà metà delle mie radici, un’identità che di fatto non è completa e in qualche maniera oscura il lato matrilineare della mia famiglia che per me è così importante. Da adulta mi sono chiesta molte volte il perché di questa amputazione forzata. Qualche giorno fa, proprio a proposito del valore anagrafico del cognome, una sentenza della Corte costituzionale ha dato corso a una piccola rivoluzione sociale e culturale decretando la fine dell’assegnazione automatica ai figli del cognome paterno. Il cambio di rotta prevede che ora sia automatica l’assegnazione affiancata dei cognomi paterno e materno, anche se i genitori avranno comunque la facoltà di attribuire al bambino uno solo dei due. In sostanza si apporta un unico vero cambiamento: la libertà di scelta. Chi vorrà rispettare la tradizione obsoleta e tuttavia consolidata da secoli – e perciò difficile da ribaltare in una notte – potrà farlo, l’eredità patronimica non verrà intaccata. È la suddetta libertà a rendere vuota e pretestuosa ogni contestazione. La sentenza considera la regola dell’automatismo del cognome paterno “discriminatoria e lesiva dell’identità dei figli”; ammette quindi il legame fondamentale tra nome e identità personale, e la necessità di superare un’iniquità concettuale tutta a detrimento delle donne, nel caso specifico delle madri. L’equiparazione di genere passa anche attraverso questa che possiamo considerare l’ufficializzazione di una presa di coscienza sociale già in atto da alcuni anni. Pur sapendo che si tratta di un’operazione lunga e complessa, tantissime persone in totale autonomia hanno deciso di presentare istanza in tribunale per il cambio del cognome, per sé o per i propri figli, con l’intenzione precisa di rendere “giustizia” anche al cognome materno, ovvero alle proprie radici. Non dobbiamo pensare che quello della Consulta sia uno sghiribizzo giuridico superfluo che fa capolino tra una guerra e una pandemia; già nel 2006 scriveva che “il solo cognome paterno è il retaggio di una concezione patriarcale della famiglia e di una tramontata potestà maritale”. La giurisprudenza si adegua all’evoluzione della società e risponde, seppure in ritardo, alle sollecitazioni in tal senso giunte dalle Corti europee. Non dobbiamo nemmeno pensare che l’adozione del nuovo automatismo sia la fondamentale risoluzione di tutti problemi che riguardano la parità di genere, o che sia risibile se confrontato con questioni più “pratiche”. La professoressa Carla Bassu, costituzionalista docente di diritto pubblico comparato all’università di Sassari, sulla scorta dell’esperienza personale e di una battaglia sull’argomento portata avanti dal 2014, spiega che “il diritto alla trasmissione del cognome materno è espressione del principio di eguaglianza”, e che “esiste un’iniquità a svantaggio delle donne e in quanto tale va eliminata dall’ordinamento”. Per capirci: si deve partire dalla teoria per portare cambiamenti pratici, si deve correggere la forma per mutare la sostanza. Al Parlamento l’onere di sbrogliare garbugli come l’accumulo dei cognomi e altri inghippi burocratici, basterà che si ispiri a paesi più esperti come la Spagna. Per dibattiti spiccioli e facili ironie potremo sempre rivolgerci alla “consulta” dei social.


 

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