Giornata del malato, le diocesi di Oristano e Ales-Terralba riunite a Uras
L’omelia integrale di monsignor Roberto Carboni in occasione della ricorrenza che la chiesa celebra
Oristano Domani, domenica 11 febbraio, la chiesa cattolica celebra la Giornata mondiale del malato. L’arcivescovo Roberto Carboni ha voluto anticipare l’incontro coi malati e sofferenti, operatori sanitari e volontari, nel pomeriggio di venerdì 9 febbraio: i due uffici diocesani per la pastorale della Salute di Oristano e Ales-Terralba, guidati rispettivamente da padre Gianluca Longobardi e da don Giorgio Lisci, hanno organizzato nella palestra comunale di Uras l’incontro interdiocesano.
Ecco il testo integrale dell’omelia dell’arcivescovo Roberto Carboni: «Cari fratelli e sorelle, la meditazione che desidero offrirvi in questa celebrazione per la XXXII Giornata Mondiale del Malato attinge a piene mani al messaggio che il Santo Padre Francesco ha inviato a tutta la Chiesa intitolandolo: Non è bene che l’uomo sia solo. Curare il malato curando le relazioni. Mi rallegra che questo momento di preghiera con i malati e per i malati sia segno del cammino che le due diocesi sorelle di Oristano e Ales-Terralba stanno percorrendo insieme. Ringrazio perciò gli Uffici diocesani della Pastorale della Salute, don Giorgio Lisci e padre Gianluca Longobardi, per la cura nell’organizzare questa Eucaristia e ringrazio don Roberto Lai, parroco della comunità di Uras che ci ospita per questo momento di preghiera. È il Signore stesso che ci riunisce, e vuole rafforzare in noi, nell’attenzione ai malati delle comunità delle due diocesi, la spinta a crescere nella condivisione e nell’ascolto reciproco. Questa celebrazione è un segno eloquente per tutti noi: siamo chiamati a riservare una speciale attenzione alle persone malate e a coloro che le assistono. Il pensiero va in particolare a quanti, in tutto il mondo, soffrono di tante infermità ma ancor più vivono il peso dell’indifferenza, della mancanza di cure, della fatica a reperire medicine. A questo si aggiungono le notizie che ci arrivano dai luoghi dove c’è la guerra, con il dramma dei feriti e l’impossibilità di avere cure adeguate. A tutti, specialmente ai più poveri ed emarginati, esprimiamo la spirituale vicinanza, assicurando la sollecitudine e l’affetto della Chiesa. Il Papa ci ricorda che siamo creati per stare insieme, non da soli. E proprio perché questo progetto di comunione è iscritto così a fondo nel cuore umano, l’esperienza dell’abbandono e della solitudine ci spaventa e ci risulta dolorosa e perfino disumana. Lo diventa ancora di più nel tempo della fragilità, dell’incertezza e dell’insicurezza, spesso causate dal sopraggiungere di una qualsiasi malattia seria. La malattia impone di uscire dal nostro mondo chiuso, per imparare a guardare agli altri, alla loro solitudine, al loro abbandono, e sentirci coinvolti. La vicinanza è un balsamo prezioso per coloro che soffrono, che dà sostegno e consolazione a chi soffre nella malattia. In quanto cristiani, viviamo la prossimità come espressione dell’amore di Gesù Cristo, il buon Samaritano che, con compassione, si è fatto vicino a ogni essere umano: ferito dal peccato, è segno per ogni cristiano che si fa vicino al prossimo sofferente. Sempre papa Francesco continua nel suo messaggio: nei Paesi che godono della pace e di maggiori risorse, il tempo dell’anzianità e della malattia è spesso vissuto nella solitudine e, talvolta, addirittura nell’abbandono. Questa triste realtà è soprattutto conseguenza della cultura dell’individualismo, che esalta il rendimento a tutti i costi e coltiva il mito dell’efficienza, diventando indifferente e perfino spietata quando le persone non hanno più le forze necessarie per stare al passo. È decisivo l’aspetto relazionale: metterci in relazione con il malato, ma anche con gli operatori sanitari e intrattenere un buon rapporto con le famiglie dei pazienti. Proprio questa relazione con la persona malata trova una fonte inesauribile di motivazione e di forza nella carità di Cristo, come dimostra la millenaria testimonianza di uomini e donne che si sono santificati nel servire gli infermi. Cari fratelli e sorelle, il comandamento dell’amore, che Gesù ha lasciato ai suoi discepoli, trova una concreta realizzazione anche nella relazione con i malati. Affidiamo tutti i nostri malati presenti e quelli che non sono potuti venire alla Madre del Signore, alla Vergine di Lourdes. La prima cura di cui abbiamo bisogno nella malattia è la vicinanza piena di compassione e di tenerezza. Per questo, prendersi cura del malato significa anzitutto prendersi cura delle sue relazioni, di tutte le sue relazioni: con Dio, con gli altri, familiari, amici, operatori sanitari, col creato, con sé stesso. Oggi noi facciamo speciale memoria della Vergine che appare a Lourdes e che trasforma un luogo di sofferenza, un luogo emarginato e oscuro, in luogo di accoglienza, di luce, di speranza. A Lourdes la Madonna, attraverso coloro che si prendono cura dei malati, si è fatta attenta alla povertà dei suoi figli, dirige l’attenzione del Suo figlio verso i nostri limiti e ci invita ad avvicinarci ai sofferenti con il desiderio di manifestare l’amore e la sollecitudine di Dio. Ricordiamo nella preghiera questi nostri fratelli e sorelle, cresciamo in quel servizio gratuito e generoso nei loro confronti e accompagniamo i loro momenti difficili con la nostra preghiera. Faccio ancora mie le parole del Papa: Prendiamoci cura di chi soffre ed è solo, magari emarginato e scartato. Con l’amore vicendevole, che Cristo Signore ci dona nella preghiera, specialmente nell’Eucaristia, curiamo le ferite della solitudine e dell’isolamento. E così cooperiamo a contrastare la cultura dell’individualismo, dell’indifferenza, dello scarto e a far crescere la cultura della tenerezza e della compassione».