«Pace in Palestina», a Ghilarza la marcia degli attivisti contro le guerre
Da tutti si è levato un grido unico in favore del cessate il fuoco nella Striscia di Gaza
Ghilarza Le bandiere nere, bianche, verdi e rosse sventolate come vessilli di pace, la voce usata come grimaldello contro la violenza e la sopraffazione subite dai popoli vittime dei conflitti nel mondo: è l’istantanea, con effetto sonoro, della manifestazione contro la guerra nella Striscia di Gaza che ieri ha richiamato a Ghilarza un centinaio di persone dal Centro e dal Sud Sardegna. Il parco Su Cantaru alle porte del paese in cui si sono radunati i manifestanti è stato anche il punto di convergenza tra la causa palestinese e quella curda, appoggiata con la marcia solidale sul Sentiero di Newroz, il cammino da Ovest a Est dell'isola partito sabato dalla borgata marina di S’Archittu nel territorio di Cuglieri.
Al grido di «Free Palestine» i dimostranti hanno ripetutamente invocato il cessate il fuoco in Medio Oriente e l’avvio di trattative che mettano immediatamente fine all’incubo di una quotidianità di morte, di terrore e di stenti in cui sono precipitati un milione e mezzo di persone. All’invocazione di libertà, che ha fatto da intermezzo agli interventi che si sono susseguiti al megafono, si sono accompagnate spesso le parole «silenzio, indifferenza e responsabilità», nonché l'ammonizione a non sentirsi estranei ma partecipi della tragedia in atto. Il consesso ha pertanto assunto l'impegno a tenere puntato un faro sulla terra flagellata dalle bombe e dalla carestia, in cui «ai bambini vengono amputati gli arti feriti senza anestesia per mancanza di farmaci», e a profondere il massimo sforzo nell’opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica che i movimenti pacifisti stanno svolgendo a tutte le latitudini del mondo.
«Ciò che realisticamente si può fare, oggi, è cercare di trovare una base di dialogo comune con chi la pensa diversamente da noi, con chi ha posizioni antisemite e antisioniste, e questo terreno è rappresentato dalle risoluzioni dell' Onu», ha detto Gian Luigi Deiana, referente del Comitato Palestina della Sardegna Centrale che ha promosso l'incontro. Citando il giornalista Ettore Masina a proposito degli accordi internazionali sulla creazione dello Stato d’Israele, Luigi Deiana ha definito la Palestina «La cattiva coscienza del mondo. Le colpe dell’Occidente furono trasferite da un’altra parte, ecco cos’è la cattiva coscienza. E se siamo qui è perché tutti abbiamo colpa. Ma c'è anche la Redenzione: significa non diventare ciechi di fronte a ciò che sta succedendo, altrimenti la coscienza diventa discarica. Dobbiamo trovare il modo di essere la seconda potenza mondiale, di essere, cioè, l'opinione pubblica consapevole e capace di misurare la straordinarietà di un peccato senza fine, e il velo che governi e informazione vi hanno posato sopra è quasi peggio».
La travagliata convivenza israelo-palestinese degli ultimi 76 anni è stata raccontata da diversi testimoni oculari e da chi pagò le dirette conseguenze di scelte politiche fatte in un’altra parte del mondo per “espiare” la colpa di un abominio chiamato Olocausto. «I miei genitori e io scappammo in Giordania nel ‘67, quando gli israeliani occuparono la nostra casa. Avevo undici anni», ha ricordato Khalil Almasadeh, nato a Beit-Jala, un sobborgo di Betlemme. Dal 1975 Khalil vive a Nuoro, dove esercita la professione medica. Nella sua terra d'origine è tornato spesso dopo la laurea conseguita a Milano, l’ultima volta una settimana prima del 7 ottobre. «Nulla faceva presagire ciò che sarebbe successo. Oggi la Palestina è sotto occupazione senza cibo né acqua. Si parla di 32mila morti, ma sotto le macerie ce ne sono almeno altri 15mila. Noi vogliamo una Palestina libera; vogliamo vivere in confini sicuri, in pace e in democrazia», è l'appello da lui lanciato poco prima di andare a soccorrere una donna colta da malore durante la manifestazione.
Chi in Palestina c’è stato prima della strage di Hamas e dello sterminio di civili in cui si è trasformata la rappresaglia del governo di Israele, ha descritto uno stillicidio di violenze e di sopraffazioni gratuite. «Ai ragazzi di Gaza che lanciavano pietre contro il muro, i cecchini dell’esercito israeliano sparavano proiettili non convenzionali che esplodendo lasciavano schegge in tutto il corpo rendendo impossibile estrarle tutte. Queste provocavano sofferenze indicibili. Nel momento in cui rimaniamo indifferenti siamo responsabili. Il genocidio degli Ebrei è avvenuto nel silenzio dell’Occidente. È il silenzio che uccide, facciamoci sentire», ha esortato Pina Deiana, psicologa in missione in Medio Oriente con Medici Senza Frontiere tra il 2019 e il 2020.
Nicola Giua, dell'associazione Cobas-Sardegna, ha denunciato una certa deriva «oscurantista» nelle scuole. «Chi insegna la storia della Palestina è spesso soggetto a provvedimenti disciplinari. Il ministro dell’istruzione dispone le ispezioni, ma bisogna raccontare come mai si è arrivati all’oggi, senza indicare le colpe, ma lasciando che i ragazzi si facciano un’opinione», ha detto l’attivista parlando a un pubblico anche di giovani, che non hanno avuto remore a parlare, persino dal palco, di «criminalizzazione del dissenso», di «genocidio» e di «apartheid».