La Nuova Sardegna

Sequestri, una stagione ancora da capire

di Piero Mannironi
Sequestri, una stagione ancora da capire

È arrivato il momento di approfondire il vero ruolo della rete segreta del giudice Luigi Lombardini

15 dicembre 2013
4 MINUTI DI LETTURA





di Piero Mannironi

Non poteva che essere un uomo prigioniero del passato a cercare di resuscitare un male ormai estinto. Graziano Mesina, mito sbiadito di una stagione violenta che la Sardegna ha archiviato e vuole solo dimenticare, si è smarrito ancora una volta nel labirinto oscuro dei suoi ricordi, prigioniero di quell'infamia antropologica che si manifesta nel sequestro di persona. Grazianeddu si è forse illuso di essere più forte del tempo, incapace di capire che il suo mondo, dove il "furto degli uomini" era una tragica condizione di normalità, è definitivamente finito. Sì, è possibile che qualche epigono del sequestro possa resuscitare paurosi fantasmi, ma è il rapimento come sistema, come deriva costante di un universo bloccato, a non esistere più. Lo dicono prima di tutto i numeri, che freddamente certificano come il fenomeno si è esaurito negli anni Novanta. Il rapimento del possidente di Bonorva Titti Pinna è l'eccezione che conferma la regola, ma anche la conferma che non esistono più le condizioni per organizzare e portare a termine un sequestro. Nella rozza formula matematica del “furto di uomini”, infatti, esistevano delle costanti e delle variabili. Una delle costanti era sicuramente la presenza del latitante. L'uomo senza alibi, cioè il custode perfetto. Da tempo i latitanti sono però diventati marginali perché nel tempo si è rotta l'infernale circolarità tra faide e sequestri: i rapimenti provocavano tensioni e scontri che portavano a rotture profonde nelle bande, degenerando poi in feroci regolamenti di conti che ci si ostinava a chiamare impropriamente faide.

Le faide. La risultante di queste guerre erano morti e latitanti. E questi ultimi diventavano subito risorsa preziosa per nuovi sequestri. Insomma, la fine di una storia diventava la premessa per l'inizio di un'altra. L'estinzione delle faide ha perciò fatalmente portato a un indebolimento del sistema-sequestro, scomponendo il suo rudimentale paradigma organizzativo.

Contestualmente, la legge del 1991 (la cosiddetta "linea dura") ha avuto effetti devastanti sull'Anonima già in crisi profonda. Il "congelamento" dei patrimoni delle famiglie dei rapiti, il divieto di intermediazione e l'inasprimento delle pene sono state una scelta di politica criminale sicuramente pagante, che comunque ha sollevato una tempesta di polemiche. Perché ignorava confini morali e giuridici, come lo stato di necessità, e superava drammi emotivi, come il calvario di chi era finito nella voragine terrorizzante del sequestro in quel periodo di transizione. Qualcuno l’ha definita una "scelta di cinica necessità". E certo in parte lo è stata. Ma è stata anche la pietra tombale per le Anonime. Il linguaggio asettico dei numeri è più eloquente di qualunque valutazione: dal rapimento della consulente del lavoro Silvia Melis, nel febbraio 1996, a oggi si è consumato un solo sequestro. Quello di Titti Pinna, avvenuto il 19 settembre 2006. Questo vuol dire che in ben 17 anni c'è stato un solo rapimento, tra l'altro conclusosi in modo disastroso per i banditi.

L’ossessione. Oggi c’è la necessità di storicizzare il fenomeno dei sequestri e leggerlo depurato da storie umane e giudiziarie, da miti e da giudizi. Perché è arrivato il tempo di capire cosa è accaduto davvero in quegli anni che vanno dalle clamorose inchieste sulle due Anonime al rapimento di Silvia Melis. Una delle chiavi di lettura è il giudice-sceriffo Luigi Lombardini, uomo complesso ed enigmatico, ossessionato dal mondo dei sequestri. A lui si attaglia l’aforisma del filosofo Nietzsche: «Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro. E se tu riguarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso vorrà guardare dentro di te».

L’esercito segreto. Ma forse la vera chiave per capire quegli anni è soprattutto l’esercito di ombre di Lombardini, quel servizio segreto liquido ed eterogeneo, nato per volere dell’ex presidente Cossiga dopo il sequestro dell’ingegnere inglese Rolf Schild e della sua famiglia. La Commissione Pardini e i magistrati di Palermo l’hanno definito “Rete” o “Zona grigia”. Nella sostanza, un ambiente tenuto insieme da finanziamenti segreti e donazioni più o meno estorte, e all’interno del quale si muovevano 007, latitanti, banditi, liberi professionisti, pastori, imprenditori e perfino uomini delle forze dell’ordine.

Potere occulto. Il compito di questa misteriosa organizzazione era quello di prevenire o aiutare a risolvere i sequestri, ma il sospetto, molto forte, è che la medicina a un certo punto sia diventata parte della malattia. Cioè che la “Rete” abbia prolungato l’agonia dell’Anonima morente per poter perpetuare il proprio potere occulto e, soprattutto, continuare a ricevere fondi. In questo contesto è molto probabile che Lombardini sia diventato paradossalmente vittima di quell’ambiente del quale lui doveva essere il regista. Ma tutto quello che sapeva se lo è portato nella tomba, sparandosi un colpo di pistola in bocca nella calda sera dell’11 agosto 1998.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

In Primo Piano
L’intervista

Giuseppe Mascia: «Cultura e dialogo con la città, riscriviamo il ruolo di Sassari»

di Giovanni Bua
Le nostre iniziative