La Nuova Sardegna

«Cosa serve ai sardi? Tanta autocritica»

di MARIO FATICONI
«Cosa serve ai sardi? Tanta autocritica»

Una straordinaria intervista inedita che ora diventa un libro

23 ottobre 2014
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MARIO FATICONI. Nell'isola è accesissimo il dibattito sull'identità.

«Si vuole definire l'identità? Bene. Ma ci vuole molto coraggio, coraggio di auto esaminarsi. Io voglio incoraggiare l'autocritica, mi sembra democratico farlo. E ce n'è da fare. Lo sa che tremila sardi si sono offerti di fucilare l'anarchico Schirru? E che la Sardegna è l'unico posto dove i nazisti occupanti non hanno avuto resistenza? Fiori e folle e saluti alla loro partenza».

Che spazio c'è per l'autocritica nell'isola?

«Beh, io in Sardegna vengo all'improvviso e subito vado via... Certo che... Le faccio un esempio, il monumento a Gramsci ad Ales. L'amministrazione precedente mi aveva chiesto il progetto. Faccio il disegno, lo mando, lo approvano. Non se ne fa nulla. Mancava un luogo adatto. Quel triangolo di piazza proposto l'avevo rifiutato per motivi di dignità. Era piccolo e mi sono rifiutato di far espropriare un orto. Indifferenza, apatia. L'identità, invece, chiede riscatto. Gli Amici di Casa Gramsci di Milano sapevano di me, ma se ne sono infischiati. Allora Pomodoro ha offerto una scultura gratis già fatta, non pensata ad hoc, e hanno risolto. “Vi fate fare queste cose”, ho detto agli artisti locali. “Ci siamo abituati”, mi hanno risposto».

Sardi e Sardegna. Che rapporto?

«Non è amata la Sardegna dai sardi. Conosco Michele Columbu. Quando tornavo gli dicevo: sono nato e le prime nozioni erano che tutto apparteneva ad altri, muri, muretti... si guardava oltre i muretti l'orto degli altri. Vorrei comprare un pezzo di terra che fosse mia. È tutta tua, mi rispondeva, sei l'unico che la vede. Già: il primato della forma, quello che vedo è mio».

Avrà momenti di incertezza identitaria...

«Più di metà della mia vita l'ho passata in America. È un Paese che stimo molto, mi ci sento comodo».

Nell'isola c'è un dibattito vivace sulla lingua.

«Due anni fa sono stato per quattro mesi ad Orani. Osservavo le reazioni, gli effetti della modernità nel paese. Sono un precursore della lingua sarda, parlavo così sempre in famiglia. La comunicazione scritta, l'italiano, diventa rituale, ho sempre avvertito una cacofonia. Scrivo in sardo ai parenti da anni. Lo stile dei soldati: io bene e voi? Mi diverte osservare le mie sorelle: con i figli parlano sardo, ma italiano con i nipoti. Modernismo, ambizione di elevazione sociale. Poi c'è l'italiano in America che parla il dialetto ai figli, così questi a scuola non possono comunicare... Per gli uffici sono assolutamente d'accordo per l'uso della lingua, unico modo per tenere il contatto con la cultura tradizionale. A Venezia si continua a parlare in veneto...».

Quali altre peculiarità sarde attuali la colpiscono?

«Ho intervistato due giorni fa l'editore americano che sta per pubblicare "Padre padrone" di Gavino Ledda, di cui è in distribuzione anche il film dei Taviani. Il libro non mi è piaciuto. Manca del tutto la poesia nel personaggio. Non dà un'immagine bella della Sardegna, dicono. Meglio del libro, comunque, a quanto ho sentito... In questi scrittori crudeli, un po' naif, autodidatti, c'è qualcosa di rozzo e insensibile, non riesco a cancellare questo sapore di guardia di finanza... È raro che un padre sia così cattivo, come nel libro, non risulta dalla mia esperienza. Brontoloni e scontrosi, sì, ma non così. In Sardegna c'è molto cattivo gusto, un senso di squallore, e un sapore di durezza che sa di caserma e di campo militare, derivata forse dall'esperienza dei giovani al servizio di leva».

Ad esempio?

«I pastori sardi non sanno farsi le capanne o le casette stagionali, se si esclude un po' il nord. Le fanno orrende, mai abbellite o aggiustate. Ovili come porcili, blocchi di cemento e lamiere di metallo, topi. Ma il pastore ha la macchina rossa parcheggiata... Il cattivo gusto è un fatto nuovo, venuto con i campi militari, le tecniche. Plastica al posto dei cesti. Le anfore non si fanno più. Si costruisce con i mattoni bucati ma le facciate non le possono completare, così invece di lasciarli naturali, i mattoni, li spruzzano di cemento».

L'America in che cosa si fa preferire invece?

«In America quando si parla di opinioni si pensa con la testa. In Europa, in Italia e in Sardegna si parla con lo stomaco. Interviene qualcosa di mal digerito, un umore viscerale. L'interlocutore è sempre quello con le idee sbagliate. Difficile per gli europei capire il concetto di democrazia in America. Gli americani hanno messo nella concezione della vita l'elemento della sfiducia negli uomini, negli uomini quando si mettono a formulare l'assetto sociale. Loro dicono: meglio non fidarsi, meglio le leggi, la Costituzione, molti controlli e rigidi. Un’idea scettica dell'uomo».

In Europa, in Italia, in Sardegna avrebbe avuto la possibilità di esprimersi che ha avuto negli Usa?

«No. Non avrei avuto questa possibilità. . Da noi c'è un carico di prevenzioni che rende difficile essere leggeri e liberi. Per usare l'espressione giusta: essere democratici, vivere in una democrazia».

A che cosa sta lavorando, che cosa l'aspetta?

«Un lavoro per la nuova sede in Virginia della Mobil Oil, sto preparando i disegni, una scultura, un ambiente da decidere sul posto. Poi, un soggiorno in residenza al college di Tarmut in New Hampshire e un insegnamento in California all'università di Berkeley per un quarto di anno. Non è un insegnamento fisso, è un "visiting", professore temporaneo: forma tridimensionale nel reparto di architettura. Probabile ancora una proposta in Toscana, forse ci porto un gruppo di studenti, per un corso di scultura, accampati lì a studiare restauro e visitare le località storiche».

Un po' lo spirito di "Paese museo" a San Sperate.

« “Paese Museo” è un'iniziativa molto vivace e piacevole ma carente di conoscenza dei problemi degli interventi artistici in un contesto architettonico occidentale».

Due anni fa a San Sperate disse: «Una cultura popolare creata da tutta la comunità non può che essere basata sulla necessità, così come succedeva nei paesi, allorché tutti partecipavano alle usanze e ai bisogni della vita, ad esempio fare il pane».

«Sì, ricordo. E dissi anche che quando si dipinge un muro, che ha sempre una funzione sua propria molto precisa, si deve rispettare questa funzione... Certo, Sciola ha talento naturale e istinto per la forma plastica sculturale, ma con un residuo di esagerata nozione dell'arte, la fiducia che si possa esprimere più di quello che il mezzo consente».

Il suo bilancio, ad oggi?

«Vedo più chiaro quello che voglio fare. Ma anche le ragioni per non farlo, più che mai»

Come definire questa nostra conversazione?

«Un rapporto del mio silenzio».

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