Green, cemento e una rete di scatole cinesi
Le dune boscate di Narbolia teatro di una durissima battaglia ambientalista finita a Roma e Bruxelles
di Piero Mannironi
Le promesse, i proclami, le speranze e le illusioni, ma anche le polemiche roventi e le accuse, sono oggi solo echi lontani. La storia di Is Arenas sembra destinata a morire in silenzio. Tristemente. Oggi quasi nessuno ricorda che su queste dune boscate, "ferite" da un campo da golf e dal cemento si è combattuta una delle battaglie ambientaliste più dure e complesse della storia recente della Sardegna. Uno scontro che produsse un sisma politico violento, capace di far tremare il governo svizzero e umiliare il governo italiano, punito dall'Europa con due procedimenti di infrazione.
Storia di paradossi e di stranezze, quella dell'investimento immobiliare di Is Arenas. Ma soprattutto una storia con troppe opacità. Per esempio: da dove arrivavano i capitali per costruire 220mila metri cubi di cemento intorno al campo da golf? E poi: chi erano i veri registi dell’operazione immobiliare? Risposte non facili perché era stato creato un raffinato sistema per oscurare i nomi degli investitori e l’origine dei capitali. Quando partì l’operazione, l’assetto societario della Is Arenas srl era infatti un enigma. Il capitale sociale era nelle mani di una società, l'Antil BV, che era amministrata da due organi dirigenti: una holding e una persona fisica. Si trattava della Intra Beheer di Amsterdam e dell'avvocato d'affari di Lugano Diego Lissi.
La prima era una realtà labirintica che portava, attraverso un complicato gioco di scatole cinesi, nei paradisi fiscali dei Caraibi e negli ovattati salotti della finanza elvetica. Diego Lissi, che era stato in passato il braccio destro del potente banchiere svizzero Tito Tettamanti padre-padrone della Fidinam e della Banca Svizzera Italiana, era ovviamente il rappresentante di azionisti che preferivano restare nell'ombra.
L'offensiva degli ambientalisti sardi del Gruppo d’intervento giuridico, che trovarono una tenace alleata nell'europarlamentare dei Verdi Monica Frassoni, quindici anni fa rimbalzò in Svizzera dove provocò un terremoto politico. E quei 220mila metri cubi di cemento diventarono un affare molto spinoso anche per il Governo italiano quando, nel settembre 2003, rimediò una brutta figura internazionale e una messa in mora complementare (era già stato aperto il procedimento di infrazione).
L’allora ministro dell'Ambiente Altero Matteoli aveva spedito a Bruxelles un alto funzionario, Aldo Cosentino, con la missione di cancellare Is Arenas dalla geografia dei Sic. Cosentino aveva firmato la richiesta, motivando l'iniziativa del ministero in un modo surreale. In estrema sintesi: Is Arenas doveva essere cancellata dalla rete dei Sic europei, perché la sua integrità ambientale era stata seriamente danneggiata dalla società Is Arenas srl e perciò le dune boscate non erano più meritevoli di tutela. In parole più semplici era come dire: tu società sei resposanbile del deterioramento dell'equilibrio ambientale e perciò ti premio cancellando i vincoli che impediscono la realizzazione del tuo investimento immobiliare. Un'enormità.
Impossibile non chiedersi cosa abbia indotto un governo a perdere la faccia nella platea politica europea per difendere un investimento immobiliare. Domanda senza una risposta, che legittima molti sospetti.
C'è poi un altro capitolo di questa storia infinita che dimostra che a Narbolia forma e sostanza non sempre hanno coinciso. Dunque, il presupposto della legittimazione a costruire della Is Arenas srl è stato un accordo di programma del 1997, che si basava sulla vecchia normativa di pianificazione urbanistica regionale. Ebbene, dopo un ricorso degli ambientalisti, tredici dei quattordici piani paesaggistici vennero cancellati dal Consiglio di Stato e dal Tar Sardegna perché non in armonia con le norme generali di tutela ambientale. L'unico a sopravvivere, guarda caso, fu proprio quello nel quale si trova la pineta di Narbolia.
«Una questione formale - si disse - mancanza di legittimazione attiva». Stranamente, infatti, mancava nel fascicolo il documento che certificava che Bruno Caria era il responsabile della sezione sarda degli Amici della Terra. Eppure i ricorsi presentati dagli ambientalisti erano ricorsi-fotocopia, perché tutti fondati sull'identico presupposto. Così l'accordo di programma del'97 restò valido, nonostante gli organi di giustizia amministrativa avessero riconosciuto che si basava su un presupposto di illegittimità.