Mujahidin della porta accanto Dall’Europa verso la Jihad
Migliaia di giovani europei combattono in Siria e Iraq tra le fila degli integralisti Le radici dell’internazionalismo islamico arrivato oggi alla terza generazione
di RENZO GUOLO
Migliaia di cittadini occidentali, immigrati di seconda generazione ma anche autoctoni convertiti, combattono tra Siria e Iraq nelle fila del gruppo islamista radicale dell’IS o Daesh (acronimo in arabo di Dawla islamiya fil’ Iraq wa Shâm), l’organizzazione che ha proclamato la rifondazione del Califfato e instaurato lo Stato Islamico mettendo in discussione i confini internazionalmente riconosciuti, o in quelle di Jabhat al-Nusra, organizzazione legata a Al Qaeda.
La terza generazione politica. L’internazionalismo islamista, o meglio, il pan - islamismo combattente, non è fenomeno nuovo. Negli ultimi tre decenni è accaduto più volte che volontari provenienti dal mondo occidentale siano confluiti nei ranghi di formazioni che hanno chiamato al jihad nei diversi teatri di conflitto. Dai pochi che hanno combattuto contro i sovietici in Afghanistan negli anni Ottanta del secolo scorso ai più numerosi, anche per prossimità geografica e contesto politico, che hanno partecipato alla guerra in Bosnia negli anni Novanta, sino al più consistente flusso, nella seconda metà di quello stesso decennio, verso l’Afghanistan dopo la fondazione di Al Qaeda da parte di Bin Laden. Flusso dilatatosi ulteriormente durante la prima fase del conflitto iracheno, tra il 2003 e il 2006: al jihad antiamericano parteciperanno, infatti, centinaia di mujahidin provenienti dall’Europa. La presenza di occidentali nelle aree di conflitto segnate dal lungo ciclo politico jihadista è dunque ormai una costante.
Ma sino alla metà del primo decennio del nuovo secolo i numeri erano, comunque, ridotti. Crescono, invece, esponenzialmente con la deflagrazione del conflitto siriano. L’intensità di quel conflitto, trasformatosi rapidamente in guerra civile su larga scala; il suo stretto legame con quello che riprende, in maniera virulenta, in Iraq dopo il ritiro delle truppe americane e l’espansione dell’IS che allarga il suo campo d’azione dalle province occidentali irachene a quelle orientali siriane; la percezione collettiva tra molti giovani musulmani, anche per l’effetto mediatico prodotto da vecchi e nuovi media, che quello in corso sia un conflitto particolare, carico di significati politici e religiosi che lo differenziano da quelli precedenti, favoriscono i flussi di quelli che verranno chiamati i foreign fighters, combattenti stranieri, occidentali.
La Siria è, infatti, un enorme catalizzatore simbolico. La drammatica sorte della locale popolazione sunnita, insorta contro il regime controllato dalla minoranza alawita, setta di derivazione sciita, e repressa nel sangue dal regime di Assad nell’indifferenza della comunità internazionale, diventa, nell’immaginario collettivo di parte dell’universo giovanile islamico, anche in Occidente, il simbolo dell’oppressione universale dei musulmani.
Il legame di gruppo. I foreign fighters che combattono nelle piane mesopotamiche – affluiti inizialmente sotto le bandiere di Al-Nusra e poi, con l’emergere sul terreno dell’IS come attore politico e militare più forte del magmatico campo islamista radicale, all’ombra del vessillo nerocerchiato dell’organizzazione guidata da Al-Baghdadi – fanno parte della terza generazione politica jihadista. Generazione intesa come categoria storico-sociale e non come coorte o gruppo d’età. In questa declinazione, la generazione è costituita da un insieme di individui che fanno parte di un gruppo concreto. Gruppo che vive le medesime esperienze significative e mantiene un legame generazionale fondato sulla consapevolezza di aver condiviso percorsi e visioni del mondo comuni in un certo periodo storico (Mannheim, 1952). Gruppo che condivide esperienze particolari, rivoluzioni o guerre, che fondono insieme storie di vita e storia del mondo e per il quale l’identità si forma all’interno di una duplice costruzione del tempo: quella della biografia individuale e quella della storia della società (Abrams, 1983).
Uniti da un filo verde. Perché vi sia una generazione politica ci deve essere un evento determinante, scatenante, che dà forma a una precisa ricostruzione sociale e collettiva di un gruppo. Le diverse generazioni politiche jihadiste sono unite da un «filo verde», da una memoria collettiva che plasma la loro identità. Nel caso specifico, l’adesione al campo islamista radicale e il passaggio dalla teoria alla prassi mediante l’impegno nelle formazioni jihadiste. Contrariamente alla tradizione religiosa, che non lo considera un obbligo individuale ma comunitario (fard al-kifaya), dunque, deciso da un’autorità collettivamente riconosciuta, gli islamisti radicali ritengono il jihad1 un dovere personale (fard al-ayn) del credente.
Un obbligo che non può essere eluso senza violare i precetti divini. Un dovere concepito come esperienza militare e missionaria. Anzi, militare proprio perché missionaria, nella sua duplice accezione difensiva e offensiva (Guolo, 2004).
Vecchi e nuovi combattenti. Quella dei «siriani» è la terza generazione politica jihadista. Segue quella degli «afghani», che si sono battuti contro i sovietici negli anni Ottanta in Afghanistan e sono stati poi protagonisti, nei primi anni Novanta, dei falliti jihad nazionali in Algeria, Filippine, Egitto ma anche della «campagna di Bosnia » seguita alla dissoluzione dell’ex Jugoslavia. E succede a quella, assai più vasta, dei «qaedisti»: i mujahidin che, riunitisi nella seconda metà degli anni Novanta attorno a Osama Bin Laden nei campi di addestramento insediati nell’Emirato afghano del Mullah Omar, sono diventati attori del jihad globale e, dopo la diaspora forzata del nucleo storico provocata dalla reazione americana all’attacco dell’11 settembre, si sono riorganizzati su base regionale: nella penisola arabica, nel Maghreb, nell’area asiatica, in Mesopotamia. Alla seconda generazione politica jihadista radicale, quella qaedista, appartengono anche quanti hanno combattuto contro gli americani e le truppe degli altri paesi occidentali in Iraq dopo l’invasione del 20032. Non è, comunque, raro trovare mujahidin che hanno partecipato a molte delle esperienze catartiche che segnano la memoria delle tre diverse generazioni. Epoche cumulative che fanno registrare notevoli sintonie tra vecchie e nuove generazioni, che uniscono sessantenni e ventenni in nome di una comune eredità ideologica e pratica combattente.