Datome: «Colpo durissimo»
Il campione di Olbia ha sfidato Bryant in una partita Nba
28 gennaio 2020
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SASSARI. Gigi Datome, quando Kobe Bryant annunciò il ritiro, lei gli scrisse una lettera pubblica attraverso i social per ringraziarlo. Perché?
«Sono andato a rileggermi quel post e posso fare copia e incolla. Kobe è stato “lo spettacolo”, il giocatore più vincente e più affamato della mia generazione. Ma soprattutto, in un mondo che cerca la via più corta per il maggior risultato, ha insegnato che non esistono scorciatoie per il successo. Solo un’enorme, incessante determinazione e una voglia disumana di lavorare. Scrissi più o meno così, e oggi ne sono ancora più convinto».
Cosa ha rappresentato Kobe Bryant per i cestisti della sua generazione?
«È stato semplicemente il nostro Michael Jordan. Chi gioca oggi, se non proprio i più vecchi, non ha di fatto vissuto l’epoca Jordan. Noi abbiamo avuto Kobe, lui ci ha influenzato tutti, in un modo o nell’altro, è stato il giocatore e il personaggio di riferimento».
Lei ha avuto la fortuna di incrociarlo anche sul parquet.
«Ho giocato un intero quarto contro lui e i Lakers, a Detroit. Tra l’altro fu una delle poche gare che in cui riuscii a trovare un po’ di spazio in quel mio primo anno di Nba (il 2013-’14, ndr), e oggi dico per fortuna è stata proprio quella. È stata un’emozione grande, perché lui era uno di quei personaggi che noi cestisti avevano iniziato a idolatrare già ai tempi delle scuole medie. Arrivare a giocarci contro, a 26-27 anni, è stata una fortuna, una cosa davvero emozionante. Oggi come allora penso che trovarsi sullo stesso parquet con Kobe in una partita Nba, io con la maglia dei Pistons e lui con i Lakers, sia una di quelle cose che non ti sembrano vere. Un momento figo davvero, indimenticabile, da raccontare ai nipotini».
C’è una foto di quella sfida, Bryant e Datome uno accanto all’altro a rimbalzo su un tiro libero.
«Sì, la conservo con grande piacere e orgoglio, quella foto presto diventerà un poster incorniciato in casa mia, a Olbia».
Come ha vissuto la notizia della tragedia avvenuta domenica a Calabasas?
«Come uno shock. Eravamo in trasferta a Gaziantep e dopo la partita, quando la notizia ha iniziato a girare ho pensato a lungo se pubblicare un post sui social, perché non sapevo veramente cosa dire. La sua morte è un duro colpo, questo è un giorno di lutto per noi cestisti e per tutti gli sportivi, ma non solo: Kobe ha influenzato la vita di tantissime persone anche al di fuori dello sport. Il mio pensiero va alla famiglia, che sta vivendo un momento atroce, va alla figlia, che era una promessa della pallacanestro e alle altre vittime dell’incidente».
Perché la sua morte ha colpito così tanto anche chi non segue il basket?
«Per le ragioni che ho detto. Tragedie ne accadono ogni giorno, la vita per tutti gli altri va avanti, ma in questi casi è come perdere un amico, un parente. Kobe è una delle persone che ha influenzato di più la nostra generazione. Ha regalato talmente tante gioie che ognuno di noi si sente quasi in debito nei suoi confronti. Mi colpisce e mi fa male, tra le altre cose, il fatto che dopo essersi dedicato anima e corpo allo sport che amava, ora dopo il ritiro iniziava a godersi la vita con molto meno stress. È davvero una grande tragedia». (a.si.)
«Sono andato a rileggermi quel post e posso fare copia e incolla. Kobe è stato “lo spettacolo”, il giocatore più vincente e più affamato della mia generazione. Ma soprattutto, in un mondo che cerca la via più corta per il maggior risultato, ha insegnato che non esistono scorciatoie per il successo. Solo un’enorme, incessante determinazione e una voglia disumana di lavorare. Scrissi più o meno così, e oggi ne sono ancora più convinto».
Cosa ha rappresentato Kobe Bryant per i cestisti della sua generazione?
«È stato semplicemente il nostro Michael Jordan. Chi gioca oggi, se non proprio i più vecchi, non ha di fatto vissuto l’epoca Jordan. Noi abbiamo avuto Kobe, lui ci ha influenzato tutti, in un modo o nell’altro, è stato il giocatore e il personaggio di riferimento».
Lei ha avuto la fortuna di incrociarlo anche sul parquet.
«Ho giocato un intero quarto contro lui e i Lakers, a Detroit. Tra l’altro fu una delle poche gare che in cui riuscii a trovare un po’ di spazio in quel mio primo anno di Nba (il 2013-’14, ndr), e oggi dico per fortuna è stata proprio quella. È stata un’emozione grande, perché lui era uno di quei personaggi che noi cestisti avevano iniziato a idolatrare già ai tempi delle scuole medie. Arrivare a giocarci contro, a 26-27 anni, è stata una fortuna, una cosa davvero emozionante. Oggi come allora penso che trovarsi sullo stesso parquet con Kobe in una partita Nba, io con la maglia dei Pistons e lui con i Lakers, sia una di quelle cose che non ti sembrano vere. Un momento figo davvero, indimenticabile, da raccontare ai nipotini».
C’è una foto di quella sfida, Bryant e Datome uno accanto all’altro a rimbalzo su un tiro libero.
«Sì, la conservo con grande piacere e orgoglio, quella foto presto diventerà un poster incorniciato in casa mia, a Olbia».
Come ha vissuto la notizia della tragedia avvenuta domenica a Calabasas?
«Come uno shock. Eravamo in trasferta a Gaziantep e dopo la partita, quando la notizia ha iniziato a girare ho pensato a lungo se pubblicare un post sui social, perché non sapevo veramente cosa dire. La sua morte è un duro colpo, questo è un giorno di lutto per noi cestisti e per tutti gli sportivi, ma non solo: Kobe ha influenzato la vita di tantissime persone anche al di fuori dello sport. Il mio pensiero va alla famiglia, che sta vivendo un momento atroce, va alla figlia, che era una promessa della pallacanestro e alle altre vittime dell’incidente».
Perché la sua morte ha colpito così tanto anche chi non segue il basket?
«Per le ragioni che ho detto. Tragedie ne accadono ogni giorno, la vita per tutti gli altri va avanti, ma in questi casi è come perdere un amico, un parente. Kobe è una delle persone che ha influenzato di più la nostra generazione. Ha regalato talmente tante gioie che ognuno di noi si sente quasi in debito nei suoi confronti. Mi colpisce e mi fa male, tra le altre cose, il fatto che dopo essersi dedicato anima e corpo allo sport che amava, ora dopo il ritiro iniziava a godersi la vita con molto meno stress. È davvero una grande tragedia». (a.si.)