La Nuova Sardegna

Temussi (Aspal): «Aiutiamo i giovani a trovare la strada in un mondo sempre più competitivo»

di Pier Luigi Rubattu
Studenti all'International Job Meeting del 2020 a Cagliari
Studenti all'International Job Meeting del 2020 a Cagliari

Il direttore dell'agenzia regionale per le politiche attive del lavoro: la crisi da Covid fa paura ma ha obbligato tutti a innovare. La ricerca di un posto non è “mordi e fuggi”. Insegniamo come usare (o non usare) i social, come fare un colloquio, come costruire un piano professionale e avere le certificazioni giuste

22 ottobre 2020
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«Dobbiamo far capire ai giovani qual è il percorso corretto in un mondo del lavoro sempre più aggressivo. Dei 75mila curriculum presentati all’International Job Meeting, 40mila sono stati cestinati in venti minuti: le regole del gioco sono cambiate, le modalità di selezione sono prevalentemente digitali. Per vincere la sfida servono nuovi strumenti». Massimo Temussi, 49 anni, sassarese, direttore generale dell’Aspal (l’agenzia della Regione per le politiche attive del lavoro), vede un raggio di sole nella tempesta spaventosa provocata dal coronavirus: la crisi ci spinge a cercare – e trovare – soluzioni creative per il futuro.

Covid a parte, come è cambiato negli ultimi anni il mercato del lavoro?

«Il sistema produttivo è andato molto più avanti del sistema dell’istruzione. Scuola, università e formazione non riescono a produrre le professionalità che le imprese richiedono: è il cosiddetto mismatching. In Europa più di un milione di posti disponibili non trovano risposta. Ecco perché lavorare con le scuole e con il progetto Lanuova@Scuola è importantissimo per noi. Abbiamo iniziato con il Job Day, ora Job Meeting, ospitando ogni anno più di 13mila studenti. Nel 2020 abbiamo avuto più di 300 imprese per oltre seimila assunzioni fatte grazie ai nostri job account, figure uniche in Italia. Sono funzionari che non vanno in ufficio, ma che tutti i giorni sono in giro nelle aziende. Andare dal piccolo o piccolissimo imprenditore ci ha fatto capire che oggi il mismatching è il vero problema del mondo del lavoro».

E l’Aspal che cosa fa per combattere questo fenomeno?

«Nei centri per l’impiego aiutiamo i disoccupati a trovare una strada. Gli spieghiamo che la ricerca del lavoro non è un mordi e fuggi, che bisogna avere “pezzi” di formazione professionali idonei. Gli facciamo capire quando un curriculum va modificato. Teniamo corsi di web reputation su come usare o non usare i social network. Insegniamo come fare un colloquio, come costruire un piano professionale per avere certificazioni che ti aiutino a cercare lavoro. Strumenti e supporti digitali per  essere sempre più “occupabili”, come si dice oggi».

Quanto è cresciuta l’Aspal negli ultimi anni?

«Sono entrato all’Agenzia regionale del lavoro come commissario nel 2014, sono diventato direttore nel 2015: era un organo tecnico dell’assessorato che faceva piccoli progetti comunitari e non aveva i centri per l’impiego. La svolta è arrivata annettendo all’Agenzia il personale dei vecchi Csl, i centri servizi per il lavoro: abbiamo assunto 320 persone. Nel 2016 c’è stata la trasformazione in Aspal: con la legge di riforma sono stati annessi i ministeriali e l’organico è diventato di 640 persone. Una fusione abbastanza unica nel panorama pubblico. Nell’ultimo anno e mezzo con la nuova giunta regionale sono state assunte 200 persone. Un piano di potenziamento che avvicina l’agenzia ai parametri europei. Con le ultime assunzioni abbiamo investito sulle professionalità: da noi il 94 per cento dei dipendenti ha la laurea».

È aumentata anche la presenza sul territorio?

«Sì, in Sardegna ci sono 29 centri per l’impiego, più 10 sedi staccate. Stiamo puntando sulla capillarità dei servizi, arrivando vicini alla gente. Lo Stato si contrae e noi invece aumentiamo le sedi, secondo le linee guida dell’assessore e della giunta. In questo periodo si può accedere su prenotazione per tutti i casi specifici e improrogabili».

Il Covid vi ha obbligato a svolgere online gran parte della vostra attività.

«La preoccupazione e l’incertezza sono cresciute tantissimo, ma noi dobbiamo essere positivi. Il lockdown ha obbligato molte persone a usare strumenti nuovi. Faccio l’esempio della scheda di disoccupazione. Prima c’erano 30/40mila utenti che affollavano i centri per l’impiego, venivano anche alle 6 del mattino per fare un pezzo di carta: oggi rilasciamo la scheda con una mail. Quando l’avevamo proposto ci sentivamo rispondere: “Eh, ma io la mail non ce l’ho...”. Con gli uffici chiusi tutti hanno dovuto attrezzarsi e ora inviamo decine di migliaia di attestazioni online. Il vantaggio competitivo è enorme. Molti hanno la Pec, fanno i videocolloqui, prima sarebbe stato impossibile, ci avremmo messo dieci anni».

Quante persone utilizzano i servizi dei centri per l’impiego?

«Nel 2016 siamo partiti con 26mila utenti. Nel 2019, l’anno di picco, siamo arrivati a 116mila. L’utenza va dove c’è il servizio, ed effettivamente noi lo stiamo dando, con due tipologie: una rivolta ai cittadini, l’altra alle imprese. Quando c’erano gli uffici di collocamento le aziende non venivano contattate, non c’era uno sportello. Questo è il nostro punto di forza».

Ma quanti posti riuscite a trovare ai disoccupati sardi?

«A livello nazionale i posti di lavoro che passano per i Cpi sono fra il 3 e il 6 per cento. In Sardegna abbiamo picchi – grazie ai job account – che vanno dal 12 al 15 per cento. Supportiamo grosse catene alberghiere che ogni anno assumono più di 500 persone. Quando un’impresa ha necessità di un profilo facciamo preselezioni totalmente gratuite, con l’ausilio dei nostri psicologi del lavoro, e i migliori curriculum li rilasciamo all’azienda che decide chi assumere».

Si può fare subito qualcosa per innescare una ripresa dell’occupazione?

«Il lockdown ha fatto perdere 58mila posti di lavoro. Per riattivarli dobbiamo spendere tutte le risorse disponibili con il Recovery Fund (indirizzate soprattutto a scuola, innovazione digitale e sanità) e il rientro della Sardegna nell’Obiettivo 1 dell’Unione europea. Ormai è la regola nazionale: per ogni euro speso in politiche passive, un euro va investito in politiche attive. Per esempio, tutte le persone che hanno gli ammortizzatori sociali possono frequentare corsi di certificazione».

Ci sono casi del genere in Sardegna?

«Lo stiamo facendo per il porto canale di Cagliari, 190 lavoratori: molti di loro hanno svolto per anni una mansione che non è mai stata certificata e quindi non può essere inserita in un curriculum. Una cosa è dire “ho fatto il gruista nel porto”, un’altra “sono un conduttore di gru e apparecchi di sollevamento con certificazione riconosciuta codice Istat 7.4.4.3 prevista nel repertorio delle professioni e composta di specifiche competenze studiate e agite”, cosa che puoi dimostrare a tutti e in tutta Europa. Quando un albergo mi chiede 40 persone che sappiano l’inglese, di solito ho centinaia di curriculum di gente che lo parla. Ma l’azienda chi sceglie? Quelli che hanno la certificazione. Perché può succedere che uno ti dica che ha lavorato cinque anni a Londra, poi scopri che stava nel locale di un sardo dove parlavano quasi sempre in limba».

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