La Nuova Sardegna

Il canto del Nuraghe: «Ciò che ho fatto è resistere: ho radici difficili da estirpare»

di VANESSA ROGGERI
Il canto del Nuraghe: «Ciò che ho fatto è resistere: ho radici difficili da estirpare»

Il racconto di Pasqua. «Tutto è cambiato, nulla è cambiato. Le genti nascono, muoiono e continuano a farsi la guerra»

17 aprile 2022
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«E venne l’alba.» Quando il primo raggio di sole spuntò al di là del mare, io nacqui. Mio padre e mia madre desideravano tanto che io crescessi il più alto e forte di tutti, mi dicevano: «Sei nato per resistere, qualunque cosa accada, tu resisti». Li ho presi in parola. Ho perduto i loro nomi nel fiume impetuoso dell’età, ricordo soltanto che mio padre aveva sguardo di ossidiana e mia madre orecchini di bronzo. Non mi è importato del tempo che è trascorso, dei fulmini che schiantavano le querce.

Non mi è importato dell’acqua salata che un giorno è arrivata con grandi ondate a inghiottire la mia gente. Ciò che ho fatto è resistere. Le mie radici erano difficili da estirpare e i miei occhi erano i primi a vedere le cose.

«E venne mezzogiorno.»

Quando senti che neanche una testa d’ariete può abbattere i tuoi muraglioni, solo una missione è capace di riempirti il cuore: proteggere i più deboli, fare da scudo a coloro che un arco e una spada non sono in grado di impugnare.

Non ero indistruttibile, facevo il mio dovere e nessuno si è mai lamentato. Ero sempre al centro dell’attenzione, tutti mi confidavano i loro segreti, la notte accendevano fuochi perché la vista si rischiarasse e quando l’inverno e l’estate raggiungevano il culmine, portavano l’acqua della sorgente sacra perché mi bagnassi la bocca. Odiavo la guerra.

Quante ne ho viste, di guerre! Impossibile tenerle tutte a mente; si susseguivano con danza macabra e non c’era nulla che io potessi fare per evitarle. Ancora una volta, dovevo fare ciò per cui ero nato, e così sia. Più di ogni altra cosa odiavo mangiare i morti. Dovevo accettarli perché così accadeva da sempre, con il loro corredo di perline di vetro colorato intorno al collo e le bacche nei vasi di argilla. Divorare i morti, digerirli finché di loro non rimanevano che ossa spoglie.

Il mio mondo di pietra e bronzo è finito all’improvviso.

«E vennero i tre quarti del giorno.»

Nutrirsi di licheni e pettinarsi con i rami di lentisco non serve a nulla. Ormai la mia gente si è persa nell’oblio. Chissà se un giorno farà ritorno. Io non sono più tanto felice, accetto ciò che viene senza la curiosità dei primi tempi.

Adesso vengono a trovarmi i pastori con le loro greggi, chiedono asilo, a volte mi parlano credendo che sia troppo vecchio per rispondere. Suonano un flauto magico e quello è il momento migliore. Anche quando canta il merlo in primavera è il momento migliore. Volpi, lucertole e civette abitano da me perché sanno che non ho cuore di mandarle via, mentre gli olivastri mi coprono di fronde fin sopra il cocuzzolo della testa.

«I quattro quarti del tempo mi sommergono.»

Il tramonto è ormai giunto, ben venga una valanga di fango a sotterrarmi. Ho dormito così a lungo da dimenticare il mio nome, ma devo ricordarlo, prima o dopo ci riuscirò, lo sento, è sulla punta della lingua.

Un giorno qualcuno ha bussato alla mia tomba. Chi osava spazzolarmi la terra dagli occhi? Chi accarezzava il mio volto parlando di me, immaginando cose gloriose su di me? Nato due volte. Alla fine, ho scoperto che ce l’ho fatta, ho resistito, proprio come desideravano mio padre e mia madre.

Le mie braccia erano un po’ ammaccate, i segni delle battaglie passate erano incisi con il metallo, però ero ancora forte e dentro di me ogni cosa era messa al posto giusto, o quasi.

Fuori tutto è cambiato, e nulla è cambiato. Il mondo intero è uguale e diverso, le genti nascono, muoiono e ancora continuano a farsi la guerra.

Esisto e resisto, e intanto aspetto gli eserciti di bambini che vengono a trovarmi tutti i mesi dell’anno, salgono sulla mia schiena, toccano le mie pietre, esplorano la mia pancia. È una specie di festa quando esclamano di stupore.

Non sono più solo. E d’improvviso mi sono ricordato il mio nome. È antico, suona come l’acqua che scroscia tra le rocce. Roccia, pietra. Pietra, come me.

Il mio nome è…
 

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