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Donne in cammino: «Così le ragazze continuano a partire»

di Stefania Calledda *
Donne in cammino: «Così le ragazze continuano a partire»

Migrazione al femminile, storia e prospettive: l’analisi della sociologa Ester Cois

31 gennaio 2023
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Vicenza «La storia delle migrazioni femminili in Sardegna ha attraversato il Novecento ed è transitata nel nuovo millennio assumendo proporzioni, forme e motivazioni cangianti, di pari passo con l’evoluzione dei modi di fare famiglia e la ridefinizione dei ruoli e delle aspettative sociali connesse al genere, entro e oltre il perimetro isolano», così inizia a spiegare la professoressa Ester Cois, Sociologa del Dipartimento di Scienze politiche e sociali e delegata pro-rettorale per l’Uguaglianza di genere dell’Università di Cagliari.

Migrazioni dalla Sardegna che ancora oggi ci chiamano come protagonisti, che dalle nostre nonne alle nostre figlie e nipoti è Storia di donne in cammino. Quello che riscontriamo nella nostra attività di volontari, presso circoli e associazioni, è che l’emigrazione sarda non è certamente quella per la quale questi luoghi di aggregazione sono nati, così cambiando anche il modo stesso d’intendere il proprio ruolo, e in particolare che l’emigrazione femminile si sia distinta per il suo percorso specifico.

Ne conviene?

«Confermo, in effetti, se la componente femminile ha costituito, lungo le grandi ondate migratorie che dalla metà del XIX secolo fino al secondo dopoguerra hanno eroso il Meridione italiano, una presenza complementare a quella del capofamiglia, inestricabilmente vincolata e compresa nel processo di sussistenza dell’unità economica familiare, in qualità di mogli, madri o figlie, per cui era l’intero gruppo domestico ad attraversare il mare per insediarsi in un “continente” vagheggiato come ricco di opportunità di riscatto, almeno relativo, la definizione di un progetto migratorio individuale, tarato su una singola donna estratta dalle relazioni parentali d’origine, ha seguito vicende più variegate».

In che modo? È esperienza della Fasi stessa aver vissuto momenti diversi dell’emigrazione sarda, quali peculiarità si riconoscono nell’universo migratorio femminile sardo?

«Dapprima, sin dagli anni ’30 e lungo tutta la seconda metà del Novecento, fino agli esordi degli anni ’90, le ragazze sarde lasciavano l’isola per “andare a servizio”, o secondo modalità di impiego stagionale nei grandi complessi alberghieri del centro e del Nord della penisola o in via permanente, potendo spesso contare su una catena migratoria fatta da altre donne già partite, e ormai dotate del capitale sociale sufficiente a fungere da mediatrici e a “introdurle” nella case dei ceti medio e alto-borghesi delle metropoli continentali, come ben raccontato nel libro di Giacomo Mameli “Le ragazze sono partite” (Feltrinelli, 2015). Talvolta, il movimento centrifugo poteva compiersi in due tappe: dal paese dell’interno ai principali centri urbanizzati delle coste di sopra e di sotto e poi, da questi ultimi, verso il mare».

Sono molti i racconti relativi a queste esperienze nelle nostre sedi, spesso però sono storie di grande fatica e solitudine, non sempre pienamente soddisfacenti. Cosa mi può dire in merito?

«Certo, la condizione lavorativa subalterna nei ranghi del personale domestico non riservava ampi orizzonti di libertà, almeno all’inizio. Eppure, costituiva già in qualche misura, una forma di emancipazione, al di là di ogni narrazione romanzata ad uso e consumo dei parentadi ritrovati rientrando in paese, nelle vacanze natalizie o nelle rade ferie estive, presso i quali l’aneddotica legata all’avere fatto “esperienza del mondo” per via migratoria assumeva i contorni di uno status simbolico riconosciuto. Superata infatti l’incerta fase di transizione segnata dal duplice assoggettamento ai propri genitori, persistenti numi tutelari benché lontani, e ai nuovi padroni – che veniva sancito dal versamento quasi integrale del salario direttamente alla famiglia d’origine, lasciando solo la limitata discrezionalità delle piccole spese per sé – per molte di queste ragazze, poi donne, l’allentamento dei legami comunitari poteva significare una presa di consapevolezza della propria soggettività, e perfino una dichiarazione d’indipendenza, oltre a garantire l’accumulazione di un piccolo patrimonio personale da impiegare per realizzare un progetto di vita liberamente scelto, come l’apertura di una piccola attività in proprio, o la composizione di un nucleo familiare affrancato dai legami di sangue e affinità ascritti».

Arriviamo ad oggi, non si parte più con la valigia di cartone, eppure l’emorragia di giovani continua, lo spopolamento dell’isola è allarmante. Che ruolo giocano le donne in tutto questo?

«L’accesso in massa, o quantomeno in condizioni di sostanziale simmetria, delle donne nel sistema d’istruzione superiore e universitaria, negli ultimi decenni del Novecento e, crescentemente, fino ai giorni nostri, ha inaugurato altre modalità di migrazione al femminile in Sardegna, forse non del tutto inedite, ma di certo meno rare: quelle praticate, sempre da sole e in prima persona, per una sorta di consolidamento del processo emancipativo, già raggiunto nel diritto e nei fatti, e più vicina a un’aspirazione di realizzazione completa di sé, tramite l’investimento a rendere del capitale umano acquisito con il titolo di studio qualificato in un mercato del lavoro meno asfittico e più adeguato e remunerativo di quello locale isolano. Così, la partenza delle donne più e meglio istruite, alla ricerca di uno spazio professionale corrispondente ai propri desideri e strategie, ha finito per costituire un fenomeno robusto e perfino ordinario, consueto, del tutto prevedibile, sovrapponendo ancora una volta, ma per ragioni ulteriori, il processo di mobilità territoriale a quello di mobilità sociale ascendente».

Le ragazze continuano a partire insomma…

«Ma, per tante donne che partono, altre solcano i confini dell’isola, in direzione ostinata e contraria: sono quelle che dai confini centrali e orientali dell’Europa post-sovietica, o dalle coste mediterranee dell’Africa, o da ancora più lontano, nelle vastità del continente asiatico, dalle Filippine alla Cina, coprono la domanda di lavoro di cura familiare per una popolazione sarda sempre più invecchiata e, in larga misura, non più auto-sufficiente, che già aveva avuto meno figlie rispetto alle generazioni precedenti, e che quindi non può più contare su una coorte di discendenti che funga da cuscinetto autoctono per le carenze di un modello di welfare ancora quasi pressoché del tutto ancorato sulle solidarietà familiari e parentali allargate, nei loro assi femminili, quando di responsabilità di cura si tratta».

Storie di donne, ma anche di uomini che cercano condizioni migliori. E ora di nuovo la crisi economica, la Pandemia. Questo ha forse ulteriormente cambiato l'emigrazione femminile sarda?

«In effetti, le varie crisi che hanno scandito gli anni duemila, fino all’apoteosi pandemica, hanno disvelato un meccanismo di cooperazione-competizione che, di nuovo tra donne, si è innescato nel mercato della cura alla persona, quando un vero e proprio esercito di riserva di figlie, nuore e nipoti, prima precarizzare e poi espulse dal mercato del lavoro remunerato, ha ricominciato a contendere alle lavoratrici immigrate la prevalenza statistica nell’erogazione di prestazioni assistenziali ai propri familiari più vulnerabili, per età e/o condizioni di salute. Una piccola guerra “tra povere”, tra chi resta e chi arriva, che incombe su chi, forse su entrambi i fronti, continua giorno dopo giorno a domandarsi se valga la pena andare via, o piuttosto tornare a casa».

Oggi come ieri, è anche la Storia di queste donne in cammino a ricordarci che la Speranza è un diritto di tutti.

* Associazione “Grazia Deledda” – Vicenza

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