Mario Segni: «Questa riforma mi piace, chiude il ciclo aperto da noi»
Il “padre del maggioritario” plaude all’iniziativa del Governo Meloni. «Servono più potere e stabilità per il presidente del Consiglio scelto dai cittadini»
Sassari Mario Segni può essere considerato padre del maggioritario in Italia. Lo propugnò quando di maggioritario in Italia nessuno ancora parlava. All’ex leader referendario abbiamo chiesto un parere sulla riforma avviata dal Governo Meloni.
Che ne pensa?
«Questa riforma rappresenta la chiusura di un ciclo iniziato negli anni ‘90 con i nostri referendum elettorali. In questi anni si è riusciti a dare regioni e comuni stabili e funzionanti. Bisogna ora riformare Parlamento e Governo. Mi pare che questa riforma vada nella direzione giusta».
Insomma, possiamo dire che le piace…
«Pongo delle riserve, immagino anche qualche modifica, ma la direzione non è solo giusta, è necessaria. Non si esce dalla crisi del sistema se non con una maggiore stabilità basata sul voto elettorale».
Partiamo dal vincolo di mandato e dalla possibilità di un’unica sostituzione del presidente eletto…
«Questa possibilità, questa variante prevista dal Governo non me l’aspettavo. È una sorpresa e ho anche molti dubbi. Abolirei comunque la regola “a condizione di mantenere il programma” perché la considero inapplicabile, senza alcun valore. La stabilità del Governo è però il punto fondamentale di una riforma nel senso introdotto dai nostri referendum elettorali. Ed è l’unico modo di garantire la tenuta del Governo sino a termine della legislatura. È stato il motto di tutte le nostre campagne: il governo lo sceglie il cittadino e dura sino a che il cittadino non ne sceglie un altro. Che poi è quello che avviene in molte grandi democrazie del mondo».
Altro aspetto introdotto dalla riforma: la scheda unica per Camera e Senato. Che ne pensa?
«Non mi pare un particolare essenziale, non è un elemento fondamentale. È giusto invece introdurre un meccanismo che assicuri al premier la governabilità. Quindi la previsione di un premio di maggioranza, già introdotto con successo nei Comuni».
Veniamo al premio di maggioranza. Per ora si parla di un 55%. Ritiene sia giusto?
«Questo aspetto sarà materia di discussione parlamentare. Dico solo che non si deve andare molto sotto, altrimenti non ha senso. Ma da 55 a 53 non c’è grande differenza».
C’è il rischio che una parte minoritaria del paese abbia in mano troppo potere?
«È un discorso di fondo, che è stato sollevato tante volte. E che ha una risposta nell’esperienza delle grandi democrazie degli ultimi decenni. Abbiamo visto governi forti governare a lungo, capitò anche alla Thatcher e a Blair, benché espressione di minoranze. Le regole danno a volte indicazioni singolari, ma una democrazia si basa su delle regole. Anche se fosse una minoranza è sempre la minoranza più forte».
Si parla di ridimensionamento del ruolo del Capo dello Stato e del Parlamento
«Distinguerei i due aspetti. Partiamo dal Parlamento: ha ragione chi parla di un ridimensionamento, ma è un ridimensionamento che è iniziato 30 anni fa e che ha avuto il suo culmine con l’approvazione delle liste bloccate. C’è stata umiliazione del Parlamento più forte di questa? Una scelta sostanziale fatta dai capipartito, uno scandalo che in Italia vige. La situazione è peggiorata, dopo il fallimento del Mattarellum per mano di Berlusconi, Bossi e Calderoli, ma all’epoca anche a sinistra non furono molti a battersi sul serio. Eppure, il Parlamento è stato mortificato».
E il ruolo del Capo dello Stato?
«Qui il discorso è più complesso. Il potere del presidente è cresciuto lentamente e progressivamente nella storia della Repubblica per l’indebolimento del Governo, dalla fine dei Governi De Gasperi. Anche se gli storici più attenti ricordano che Einaudi era importante anche con De Gasperi al Governo. Questa crescita di potere ha raggiunto il massimo con gli ultimi due presidenti e ha avuto un cambiamento sostanziale e formale con la rielezione di Mattarella. Lo dico perché fu lo stesso Mattarella a sottolinearlo pubblicamente quando chiese di non essere ricandidato, dicendo che avrebbe cambiato il quadro costituzionale. Un quadro che non ha mai dato tanti poteri al Presidente della Repubblica. E in questa situazione dico meno male, perché in anni di debolezza, crisi, governi tecnici e presidenti inventati come Conte, il paese era allo sbando aveva bisogno del potenziamento dell’unica istituzione stabile. Istituzione che ha svolto un ruolo funzionale e che ha fatto benissimo a estendere il proprio potere. Abbiamo avuto la fortuna di avere un presidente stimato e equilibrato e non sempre siamo sicuri di averlo. Però un presidente, con questo potere, più di tanto non può fare. Gli ultimi 20 anni sono stati anni di crisi. Il Governo forte e stabile serve e questa riforma può darcelo».
Crede che il presidente metterà dei paletti al Governo?
«Il presidente ha il potere di esprimere dei pareri, ha un potere di persuasione e fa bene a utilizzarlo. Ma non ha un potere di modifica costituzionale».
Alla fine, ci potrebbe essere un referendum…
«Qui do ragione ad Amato in una parte dell’intervista rilasciata oggi a Repubblica. Non condivido la sua critica serrata alla riforma, ma ha ragione quando dice di fare attenzione al referendum. Ribadisco, la riforma è necessaria, è figlia del movimento referendario. Qui ricordo a Giorgia Meloni che negli anni ‘90 vincemmo i referendum più votati della storia repubblicana. Ma dico anche che il clima culturale oggi è profondamente cambiato. I falsi apostoli hanno in parte convinto gli italiani che il voto è una specie di lotteria, non un atto politico di decisione. Invece io credo che il voto serva a scegliere il governo. Il referendum rischia di affossare questa riforma: Meloni faccia di tutto per evitarlo».
Meloni propone un sistema che non esiste in altre nazioni…
«Torno ancora all’intervista di Amato. Anche lui dice a Giorgia Meloni che è meglio evitare il referendum. E indica come strada il modello tedesco dove il cancelliere viene nominato dal Parlamento e non dai cittadini. Io preferisco l’elezione diretta. Ma anche il modello tedesco darebbe stabilità e per l’Italia rappresenterebbe un grande passo in avanti».