Anche Carlo Verdelli, editorialista del Corriere della Sera, già direttore di Repubblica, Gazzetta dello sport, Sette, Oggi e Vanity fair, non ha dubbi sul ruolo rivoluzionario che ebbe Enrico Berlinguer sia nello scenario politico italiano che in quello internazionale. E anche lui questa sera sarà a Cagliari per parlare del Compromesso storico insieme al collega del Corriere, Francesco Verderami, e al direttore della Nuova, Giacomo Bedeschi.
Verdelli, perché quarant’anni dopo la sua morte si sente la necessità di celebrare Berlinguer?
«Diciamo che non c’è particolare interesse alla rimozione di Berlinguer. Quest’anno è stato anche l’anniversario dell’assassinio di Matteotti, ma non c’è stato un interesse a ricordarlo troppo. Quanto a Berlinguer è stato sicuramente un uomo di sinistra, ma non solo. Basta vedere i suoi imponenti funerali in cui ha saputo riunire tutto l’arco costituzionale. C’era anche Craxi, il nemico. E Almirante, che stava dall’altra parte della luna. Enrico Berlinguer era un galantuomo della politica e ha lasciato un segno che per fortuna permane al di là delle collocazioni».
Ai tempi Berlinguer passava per un conservatore.
«Berlinguer è stato un profeta della politica. Ha capito tante cose prima degli altri. È diventato segretario a 50 anni nel 1972 e già l’anno dopo gli venne l’idea del compromesso storico per evitare di correre il rischio di derive non democratiche come il Cile. Lui aveva una grande visione. Pensiamo alla questione morale e a quello che è stata poi Tangentopoli. È l’uomo che ha fatto la rottura con Mosca guidando il più importante partito comunista d’Europa. Ha apportato novità incontestabili».
Il compromesso storico però non era ben visto in molte aree della sinistra.
«Credo che per Berlinguer sia stato un momento difficile perché una parte importante dei movimenti di area a sinistra del Pci non vedeva più lontano dal proprio naso. Ma lui voleva l’accordo con l’altra grande forza popolare che era la Dc, questa fu la sua sfida. Anche perché lui fu fermissimo contro il terrorismo e tutte le derive che portarono al terrorismo. Lui fu un argine contro le Br anche nel caso Moro. Prese una posizione netta e chiara. Risponde a verità quanto si vede nel film di Andrea Segre, quando Berlinguer dice ai suoi cari, alla moglie, ai figli: se dovesse capitare a me, qualsiasi cosa dovessi dire, voi non ascoltatemi, non trattate e consideratemi morto».
Può essere definito il più rivoluzionario tra i leader della sinistra?
«Non solo della sinistra, ma dell’intero dopoguerra. Stacca il più grande partito comunista d’Europa - era oltre il 30 per cento - finanziato da Mosca dopo alcune scelte dell’Urss considerate autoritarie e palesemente non democratiche. E prima di rompere subisce anche un attentato in cui molto probabilmente volevano ucciderlo. Ciononostante lui sposta il Pci, ripeto il più grande d’Europa, in un’area non prevista nel dopo Yalta. Una posizione, la sua, che ebbe inevitabili conseguenze che portarono poi al 1989».
Crede che oggi la sinistra italiana debba ripartire da Berlinguer?
«Questo sarebbe un discorso molto più lungo. Mettere la faccia di Enrico Berlinguer sulla tessera è sicuramente un omaggio a un padre di quell’epoca. Rispetto ad allora sono cambiate molte condizioni, la classe operaia non c’è più, ma al di là delle idee lui aveva un carisma indiscutibile. E quello non si compra, lo si ha e lo si allena. Ma oggi quello della leadership non è un problema che riguarda soltanto la sinistra ma anche la stessa Italia».