«I miei giorni nell’inferno di Gaza tra morti, feriti e bimbi senza cibo»
Il racconto di Gianna Falchetto, l’infermiera che lavora nell’ospedale di Rafah
Sassari «La situazione oggi a Gaza è drammatica: in alcuni casi arrivano anche 150 pazienti gravi tutti assieme e, accanto alle ferite da arma da fuoco, aumentano i casi di malnutrizione, purtroppo anche tra tantissimi bambini, per le difficoltà nel reperire cibo». A parlare è Gianna Falchetto, 36 anni, infermiera di Orotelli e coordinatrice degli infermieri dell’ospedale da campo della Croce Rossa a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza. Da luglio 2024 alterna settimane di lavoro in missione a brevi rientri in Sardegna, cercando di recuperare energie prima di tornare in una delle aree più complesse e fragili del pianeta. L’ultima missione l’ha portata a Gaza a fine giugno; dopo un breve rientro in Sardegna di qualche settimana lo scorso 20 agosto ha fatto ritorno a Gaza dove rimarrà fino a dicembre.
Che cosa significa fare l’infermiera in un contesto di guerra? «Il nostro lavoro è prenderci cura di chi ha bisogno. Il punto fondamentale è essere presenti per assistere coloro i quali, in un conflitto, pagano il prezzo più alto. Noi dobbiamo curare chi arriva, senza chiedere altro ed è quello che facciamo ogni giorno».
Com’è organizzato l’ospedale in cui lavora a Rafah? «L’ospedale in cui lavoro è una struttura completa: ambulatori di medicina primaria, pronto soccorso, reparti per uomini, donne e bambini, maternità e due sale operatorie. Quando sono arrivata la prima volta la capacità era di 60 posti letto; oggi sono 120, per far fronte all’aumento di pazienti, soprattutto da metà maggio, quando il conflitto ha prodotto un’impennata di feriti».
Descriva una vostra giornata tipo «Alle 7:30 facciamo il meeting con lo staff, ma basta un “mass casualty incident” per stravolgere tutto. Significa che arrivano, tutti insieme, decine e decine di pazienti in condizioni critiche: codici rossi, gialli e purtroppo neri, cioè già deceduti. Questo accade quasi ogni giorno».
Come reagite nei momenti di emergenza estrema? «Il personale viene riorganizzato in pochi minuti: medici e infermieri vengono spostati da un reparto all’altro e anche chi è in maternità o in ambulatorio può essere chiamato a dare supporto in pronto soccorso».
E la maternità, in queste situazioni come funziona? «La maternità resta sempre attiva. Può capitare di assistere un parto mentre pochi metri più in là arrivano decine di feriti».
Quali sono le principali difficoltà di ogni giorno? «Mancano materiali e farmaci, e dobbiamo stabilire priorità su chi operare per primo. Il personale è stremato: si inizia la mattina e, se va bene, si finisce a mezzanotte. Se va male, non si dorme affatto. La fatica è fisica e mentale, ma si continua finché c’è bisogno».
I colleghi palestinesi come vivono questa realtà? «Molti di loro, finito il turno, devono tornare nelle tende dove vivono con le famiglie. Le condizioni sono durissime, la preoccupazione per i propri cari è costante».
Non ha paura per la sua sicurezza personale? «Se una cosa ti deve succedere, succede ovunque. So di essere lì per un motivo e di essere più fortunata di tanti colleghi locali».
C’è una storia che l’ha colpita più delle altre? «Tutti vivono situazioni tragiche. Non c’è una peggiore dell’altra».
Cosa significa tornare in Sardegna tra una missione e l’altra? «Tornare a casa è un sollievo ma anche una ferita: serve per riposare e vedere la mia famiglia, ma è difficile. Ho persone care anche a Gaza e non so mai se, tornando, le ritroverò tutte. Nei periodi in Sardegna continuo a ricevere messaggi e notizie dal campo. Non sapere cosa sta accadendo lì in certi momenti è ancora più pesante che essere sul posto».
Avete anche un supporto psicologico per affrontare questo peso? «Un team di psicologi lavora con pazienti e familiari, sia in ambulatorio che nei reparti, e anche con lo staff. È un sostegno indispensabile in un contesto così logorante».