Il criminologo Manzi: «Ragnedda è un narciso carico di soldi e annientato dalla cocaina»
L’omicidio di Cinzia Pinna, l’analisi: «Voleva affrancarsi dalla famiglia e dal peso del successo. Ma non ci è riuscito e si è rifugiato nella droga»
Sassari Non un mostro, ma un uomo in scacco. Eccessivo, fragile, strafatto di cocaina e col desiderio di affrancarsi da un destino scritto altrove. Per Giorgio Manzi, ex comandante del reparto analisi criminologica dei Carabinieri, l’omicidio di Cinzia Pinna è l’esplosione di un narcisismo chimico, di una vita vissuta al limite, dove ogni confine, morale, affettivo e sociale, si dissolve nella polvere bianca. Un uomo cresciuto nell’ombra lunga del successo familiare, tra vigneti, ambizione e cocaina. Un delitto che non sembra premeditato, ma inevitabile dentro un vortice di narcisismo, dipendenza e autodistruzione. La polvere purtroppo acceca sempre. A volte è bianca, a volte è il senso di onnipotenza. Nel caso di Emanuele Ragnedda, sono entrambe.
Che idea si è fatto di Emanuele Ragnedda?
«Parlerei più di impressioni che di un’idea precisa, perché non ho dati certi per esprimermi con sicurezza. L’impressione è che la vita di quest’uomo fosse segnata. Dai comportamenti descritti, sembra una persona in scacco d’ambizione, con un forte desiderio di autonomia. Probabilmente queste dinamiche si intrecciano con la storia della sua famiglia, che si è fatta da sé, raggiungendo posizioni importanti. È una condizione simile a quella dei figli di grandi personalità, come i figli dei premi Nobel, che crescono con modelli di successo, produttività e lavoro duro, e sentono il bisogno di affrancarsi da essi. È un processo comprensibile e, per certi versi, anche sano».
L’approccio dei genitori, in questa vicenda, è agli antipodi. La madre durissima, il padre molto più protettivo.
«Non li conosco personalmente, ma in letteratura si parla molto di queste dinamiche. Quando dicevo “in scacco narcisistico” intendevo proprio questo: il figlio di una figura di successo sente di dover dimostrare di essere all’altezza. Vive con la sensazione di essere costantemente giudicato. È come avere un giudice in casa che può assolvere o condannare, e questo incide profondamente sulla qualità della vita. La durezza della madre è comprensibile alla luce di quanto accaduto, ma probabilmente lo è sempre stata, come una presenza giudicante costante. Forse ha vissuto sotto il peso del giudizio materno e ha sviluppato un senso di inadeguatezza. Freud, del resto, non aveva torto sul ruolo della madre. Tra i figli di grandi personalità imprenditoriali o intellettuali si nota spesso la difficoltà ad affrancarsi da quel modello. Alcuni ci riescono, altri no. Ho letto che Ragnedda aveva tentato anche attività e investimenti finanziari non riusciti, un chiaro segno del suo tentativo di autonomia».
Che ruolo ha avuto la cocaina in questo delitto?
«Ci sono molti casi in cui i comportamenti criminali sono stati amplificati o indotti da una risposta alterata dovuta a queste sostanze. Nel caso della cocaina, chi ne fa uso abituale può andare incontro a episodi psicotici, con un’alterazione dell’esame di realtà. In pratica, la lettura che Ragnedda avrebbe dato ai fatti senza l’influsso della droga sarebbe stata molto diversa. Tutto lascia pensare a un’assenza di vera premeditazione, ma a una sorta di “preordinazione”: si creano le condizioni perché qualcosa possa accadere, disponibilità di un’arma, uso di cocaina, un contesto di tensione o litigio, e da lì può scaturire il gesto. Anche alcuni comportamenti come la discesa in elicottero, o la fuga in gommone, sono sopra le righe e sembrano coerenti con uno stile di vita sostenuto dal consumo di droghe».
L’assassino ha dichiarato di essersi difeso, ma ha sparato tre colpi al volto. Come interpreta questa dinamica?
«Potrebbe dipendere da fattori balistici. Mi pare che i colleghi del Ris stiano analizzando le traiettorie dei proiettili. La vicinanza tra i due, la posizione dei corpi, con lei forse distesa, lui in piedi, possono aver determinato che i colpi finissero al viso, senza un’intenzionalità specifica in quella direzione. Quanto all’aggressione è possibile che nella sua mente abbia percepito come tale una reazione forte e risoluta di Cinzia. In condizioni normali sarebbe bastato poco per evitarla. Le sostanze alterano la consapevolezza, la lettura delle emozioni e le reazioni comportamentali».
Un altro aspetto che colpisce è la tendenza di Ragnedda a contattare altre donne sui social con approcci di tipo sessuale.
«Sì, anche questo può essere indotto dall’uso di sostanze. Ci sono elementi che fanno pensare a un mix di disponibilità economica e consumo di droga, una combinazione che annulla i limiti. Ogni desiderio diventa possibile, e si sviluppa un senso di onnipotenza: è quello che chiamo “narcisismo chimico”, una grandiosità del sé indotta dalle sostanze dopaminergiche come la cocaina. In certi casi si arriva a veri e propri stati psicotici. Quando poi l’assunzione viene interrotta bruscamente, subentrano fasi depressive intense. Anche il tentativo di suicidio dopo l’arresto può essere letto così, come effetto neurochimico dell’astinenza».
Secondo lei il fatto che abbia tenuto il corpo di Cinzia nella tenuta di Conca Entosa per giorni rientra in una logica precisa o casuale?
«Si tratta di quelli che chiamiamo atti autoconservativi. Dopo aver commesso un delitto, chi lo ha fatto tenta di salvarsi cercando di allontanare il cadavere o di cancellare le tracce. Tuttavia, nella storia investigativa non esiste praticamente un caso di omicidio di questo tipo in cui l’autore non sia stato scoperto. Queste azioni non sono quasi mai accurate. È molto più difficile catturare un rapinatore che ha pianificato un colpo perfetto, che non un assassino che tenta maldestramente di ripulire la scena e occultare un corpo. In genere ci sono due funzioni: distanziarsi fisicamente e psicologicamente dal luogo del delitto. Per questo spesso le vittime vengono spostate in altri posti. Ma prima o poi il colpevole viene individuato».
In questo scenario, Ragnedda sostiene di avere avuto anche l’aiuto della compagna e di un amico giardiniere. Come interpreta questo aspetto?
«Non ho elementi diretti, ma quando entrano in gioco le sostanze si creano intrecci tra persone che non sono necessariamente di natura criminale. Nascono frequentazioni, confidenze, complicità. Le sostanze creano legami, debiti morali o affettivi, che non esisterebbero altrimenti. Non si tratta di veri “patti criminali”, ma di convenienze reciproche e complicità indotte dal consumo».