La Nuova Sardegna

Connessioni
L’intervista

Cristiana Collu: «A Venezia con l’anima sarda, cerco creatività nella mia terra»

di Paolo Ardovino
Cristiana Collu: «A Venezia con l’anima sarda, cerco creatività nella mia terra»

La direttrice della Fondazione Querini Stampalia sarà a Sassari per Connessioni future il 12 novembre: «Ho proposto una campagna in veneziano: la lingua, qualunque sia, è essenziale»

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La sua idea di creatività è legata al caos. Nell’estetica, nei modi e nel tono di voce Cristiana Collu è armonia e compostezza. Il caos è importante averlo dentro. Figura-chiave dell’arte in Italia, i suoi otto anni alla Galleria nazionale di Roma sono stati definiti «una rivoluzione» e ora il suo al caos creativo si aggira tra i piani della Fondazione Querini Stampalia, che per lei è «un cubo di Rubik» da girare e rigirare con mostre, eventi, iniziative. Collu, proprio in questi giorni lei è qui in Sardegna per parlare di nuovi scenari sull'arte. «Sì a Cagliari per “Contemporanea”. È un contenitore della Fondazione di Sardegna che prova a ragionare su diversi aspetti dell’arte, ho pensato di ragionare sulla creatività in generale (Collu è curatrice dell’edizione 2025 intitolata “Arcipelago dei futuri”, ndr). Mi interessa che le persone siano consapevoli di quanto siamo creativi. Anche chi pensa di non praticare la creatività, e ogni giorno magari è chiamato a trovare soluzioni nel suo ambito. Non dovremmo fare distinzioni nette tra chi è artista e chi no. La creatività va custodita, alimentata e soprattutto riconosciuta. Il futuro, poi, non è solo uno e non ha perso l'imprevedibilità, che è ciò che ci spaventa ma che ci concede ancora libertà».

Futuro vuol dire anche sviluppo, e siamo nell’era dell'intelligenza artificiale. Come si coniuga con l'arte?

«Non c'è nessun pericolo. Se lo vogliamo, siamo sempre noi a determinarla. Tutti la usiamo, ma con l’Ai non può essere un approccio solo supino, noi siamo continuamente parte attiva. Quindi, creativa». Lei sembra dire: è solo uno strumento. Un tramite. Ma l'impulso parte da noi. «Noto una cosa, l’umanizzazione del dialogo con la macchina. Chiediamo “ciao, per cortesia puoi...”, e da un lato non mi dispiace, perché dovremmo essere sempre più abituati alla gentilezza, ma dall’altra è utile ricordare che dobbiamo mantenere un controllo emotivo. Senza il nostro cellulare siamo morti, lo sappiamo, ma non arriviamo ad amarlo. Il pericolo è in questa sorta di ammirazione della propria creazione, in fondo siamo sedotti da quanto siamo capaci di fare, e ne diventiamo anche succubi».

Cambiamo piano: da lontano, quali sono gli echi che arrivano dalla Sardegna di oggi? Quali le sue potenzialità?

«Ho sempre avuto la sensazione che ci fosse davvero un altissimo tasso di creatività, e di persone che hanno un modo di pensare interessante. Il tentativo da fare è l’emersione: perché è difficile che qualcuno venga da te a esporsi. C’è il timore a far nascere le proprie idee e sapere che non troveranno luce. Si custodisce l'idea per paura anche che venga sottratta. Questo succede, non neghiamolo, ma pensando così non avrà mai una vita. Bisognerebbe spingere queste idee nel mondo, anche a costo di vederle trasformate. E qui vedo fare cose bellissime, potenti, anche con poche risorse. In tutte le arti. Poi probabilmente il problema è di sistema, riguarda tutto il mondo dell’arte: e cioè adattarsi ai tempi, comprenderli davvero».

Il 12 novembre sarà a Sassari per il festival "Connessioni future". Di cosa parlerà?

«L’idea di osmosi che il festival propone è molto importante. Far parlare mondi diversi tra loro, invitare altre voci. Quando mi hanno chiesto un titolo per l'intervento, ho pensato “IC - I create, I’m only human after all”. La sigla si legge come “I see”, io vedo, vedere come immaginazione, futuro. “Sono solo umano”, in mezzo c'è anche una citazione ai Daft Punk, significa rivendicare il valore del limite dello sguardo che dà senso al mondo. Non una diminutio, ma proprio un dato irriducibile».

Da un anno è direttrice della Fondazione Querini Stampalia di Venezia, che esperienza si sta rivelando?

«Venezia è un luogo così intenso. Una mia amica dice “un luogo psichico”, mi piace l’idea della marea, del continuo ricambio di energie. Oltre che essere città dalla bellezza struggente. La Fondazione è un luogo stranissimo, altamente stratificato: è un palazzo del ’500 e uno dei pochissimi dove si è incastonata l'architettura contemporanea. Lo definisco un cubo di Rubik, dove le cose tra loro sembrano non azzeccarci niente, invece è super contemporaneo. Ma non è il contemporaneo del “white cube”. Qui lo spazio deve dialogare e non necessariamente andare d’accordo».

Secondo lei è vero che ci portiamo dietro i nostri trascorsi? Cosa si porta dietro dalle sue esperienze, dal Man di Nuoro alla Galleria nazionale di Roma?

«Tutto, anche se, così come fatto a Nuoro, a Rovereto, a Roma, quello che mi salva è che mi sento completamente dove sono. A Nuoro ero lì, non guardavo altrove. Questo mi dà la capacità di essere in sintonia con un posto, di ascoltarlo. È interessante portare delle cose di te e capire dove sei».

Una situazione nella quale l’ha capito?

«Penso a una campagna di comunicazione fatta qui, in veneziano, nessuno l’avrebbe mai fatto, e penso di averla pensata perché ho vissuto in Sardegna e da noi il sardo è una lingua nella quale dici cose che non sarebbe possibile dire in altro modo. Qui a Venezia è sembrato strano che la proposta sia arrivata da una persona di fuori. Per me era normale. La lingua è essenziale, che sia il nuorese, il logudorese, il cagliaritano. Crea un’intesa».

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