La Nuova Sardegna

L’intervento

In calo la fiducia sul sistema sanitario, Paolo Crepet: «Ai minimi storici»

di Francesco Zizi
In calo la fiducia sul sistema sanitario, Paolo Crepet: «Ai minimi storici»

Fra le cause reparti al collasso, carenza di personale, attese interminabili e la sensazione diffusa che, di fronte all’emergenza, si tenda a “scegliere” chi curare prima

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Sassari Reparti al collasso, carenza di personale, attese interminabili e la sensazione diffusa che, di fronte all’emergenza, si tenda a “scegliere” chi curare prima. È un tema etico che scuote le coscienze, perché dietro decisioni mediche, spesso inevitabili, si nascondono interrogativi più grandi: chi decide il valore di una vita? Quale spazio resta per i più fragili e per chi non ha voce o la forza di farsi vedere? Domande che non possono trovare risposta in un numero di protocollo o in una lista d’attesa, ma che hanno bisogno di uno sguardo più profondo, capace di interpretare le conseguenza sociologiche e psicologiche della problematica.

Paolo Crepet, psichiatra, opinionista e sociologo, pone una riflessione preziosa sulla questione.

Dottor Crepet, il sistema sanitario sembra in una fase di declino costante, verso quale modello ci stiamo avvicinando?

«Verso un modello americano, che ha preso piede perché non conta l’efficacia ma bensì l’efficienza. Un modello che cerca di fare economia ma in realtà non è quello il suo mandato. Quanto sta succedendo impone delle scelte decise perché la vita media delle persone si allunga. Il vero problema è che tutto il discorso dovrebbe comportare un efficientamento sanitario, ma le proposte che arrivano in realtà sono vecchie, e se ne parla dagli anni ’70. C’è un’interpretazione maldestra di tutta la questione sanitaria che tra l’altro porta all’aumento dei privati».

Come si è arrivati a questo punto?

«Uno dei motivi è che aumentano i costi della medicina, che diventa sempre più specialistica, e ha bisogno di grossi investimenti nelle apparecchiature. Ma più aumentano i costi e meno la si può offrire, diventa medicina “d’elite”, e non offrendola più alla gente si creano costi indiretti non solo per il sistema sanitario».

Di che tipo di costi parla?

«Questo è un discorso fondamentale, e faccio un esempio: se si ha una persona anziana a carico che non riesce a essere curata, si crea un danno anche a chi gli sta attorno. Quindi magari la figlia deve prendersi la malattia dal lavoro per badare al padre allettato o non riesce a lavorare bene, e si creano problematiche in famiglia a cascata. Gli anziani non possono essere lasciati soli».

E poi immagino ci siano anche conseguenze di tipo psicologico.

«Esatto, c’è più solitudine e meno entusiasmo. Per un anziano uscire e andare a bere una cosa al bar o a giocare a carte lo fa stare bene, rimanere incollato davanti alla tv invece diventa deleterio. Ma se non viene curato come si fa?».

Questo incide anche sulla fiducia che i sardi hanno verso il sistema sanitario.

«Che infatti è ai minimi storici, comprensibilmente. Le differenze sociali in questi termini sono enormi, e più aumentano e più passa l’idea che il malato debba in qualche modo arrangiarsi da solo». Guardando l’altro lato della medaglia, anche per i medici è complesso lavorare in situazioni di emergenza costanti, quali sono le ricadute verso il personale sanitario?

«Chiaramente pesa anche a loro, ma pesa tutto il contesto. Una volta la figura del medico era mitizzata, era l’aspirazione di ogni padre per il proprio figlio, ora è passata l’idea che sia uno sfigato, che sia meglio fare soldi online. C’è stato un cambio radicale nei valori e abbiamo ucciso due pilastri fondamentali: l’insegnamento e la medicina».

E in questo contesto in cui si sceglie chi curare sembra che la vita umana sia stata deprezzata, è così?

«Senza dubbio c’è in corso una svalutazione della vita umana, ma questo fa parte della società moderna, non solo nella sanità. Pensiamo all’intelligenza artificiale. Dovremmo chiederci se c’è vita sul pianeta Terra prima ancora di chiederci se ci sia su Marte».

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