Il coraggio di Valentina Pitzalis: «Non ho mai smesso di credere nell’amore»
Nel 2011 scampò miracolosamente al diabolico disegno del marito che tentò di ucciderla dandole fuoco
Quattordici anni dopo la notte in cui le fiamme, avvolgendola, le cambiarono il volto e l’esistenza, Valentina Pitzalis continua suo malgrado a essere al centro della cronaca. Miracolosamente sopravvissuta al diabolico disegno del marito, che nel 2011 tentò di ucciderla dandole fuoco e finendo lui stesso per rimetterci la vita, nel tempo oltre agli interventi chirurgici ha dovuto subire una feroce campagna di discredito da parte di chi la riteneva in qualche modo responsabile della morte del suo aggressore. E appena qualche giorno fa ha addirittura mandato giù un post stomachevole del controverso ex senatore Vincenzo D’Anna, il quale commentando la sua vicenda ha scritto: «C’è chi la moglie la vuole cruda e chi la vuole cotta».
Quarantadue anni, cagliaritana, oggi Valentina è una delle voci più ascoltate nella lotta contro la violenza di genere: insieme all’associazione “Fare per Bene” incontra migliaia di studenti nelle scuole di tutta Italia. «È un lavoro quotidiano – spiega – e per me è diventato una missione. Ci occupiamo di prevenzione dei femminicidi, discriminazioni e bullismo. Lo facciamo dentro le scuole perché l’educazione è la vera chiave, e non solo in occasione del 25 novembre, ma ogni giorno dell’anno».
Valentina, perché l’educazione sentimentale a scuola continua a incontrare resistenze politiche.
«Non me lo spiego. Ma la resistenza esiste, è evidente. A mio avviso l’educazione all’affettività è necessaria e dovrebbe partire dalle elementari. Il problema è culturale, quindi senza un’azione culturale non si cambia nulla. Per questo motivo noi continueremo a insistere».
Che impressione le fanno i ragazzi che incontra?
«Sono molto più ricettivi di quanto si pensi. Ascoltano, fanno domande profonde, condividono esperienze personali. Molti chiedono aiuto. E vale anche per i maschi: non è vero che sono distanti da questi temi. Al contrario, hanno un forte bisogno di un linguaggio per esprimere ciò che provano».
Le è capitato qualcuno che avesse bisogno immediato di supporto?
«Sì, anche da poco. Un ragazzo mi ha raccontato di vivere una relazione complicata segnata dal trauma della sua compagna, che ancora soffre per i maltrattamenti del rapporto precedente. L’ho indirizzato al nostro sportello “Il Petalo Bianco”, gratuito e anonimo, dove lavorano professionisti».
Qual è la domanda che le rivolgono più spesso?
«Se credo ancora nell’amore e negli uomini. Rispondo sempre di sì. Quello che ho vissuto io non era amore: era controllo, gelosia malata, manipolazione. L’amore vero non c’entra. E non si può generalizzare. Il fatto che esistano uomini violenti non significa che tutti lo siano, ce ne sono tanti meravigliosi».
Lei ha subito anche un’altra violenza: quella delle accuse infondate. Quanto hanno pesato su di lei?
«Moltissimo. Tecnicamente si chiama vittimizzazione secondaria. Sono stata denunciata, indagata per tre anni, poi c’è stata l’archiviazione. Ma intanto ho vissuto sotto attacco, soprattutto sui social. E ancora esiste uno zoccolo duro, in gran parte di sardi, che mi insulta sotto ogni articolo. È la dimostrazione di quanto la violenza possa assumere forme diverse».
Con i ragazzi ha parlato anche del post infelice dell’ex senatore D’Anna?
«Sì. Quella frase è stata un oltraggio. Sono stata trattata come un oggetto. Una battuta violenta, inaccettabile, che ha indignato il Paese. Ho ricevuto molta solidarietà, è vero, ma resta il disgusto».
Come riesce a sostenere un impegno così grande dopo un trauma tanto devastante?
«Mi aiuta pensare che la mia storia possa servire a qualcun altro. Non mi pongo come modello ma come monito. Racconto gli errori che ho fatto, i segnali che non ho visto. Quando ero giovane si parlava solo di violenza fisica, non di quella psicologica, che è più subdola. Io ne sono rimasta intrappolata senza accorgermene».
Con il senno di poi, quali segnali non aveva colto?
«Praticamente tutti. Scambiavo l’eccesso di controllo per piccole insicurezze, il senso del possesso per una gelosia passeggera. Pensavo che accontentarlo avrebbe rafforzato la relazione. Invece venivo isolata, svalutata, manipolata. Non accade all’improvviso: è un processo lento che ti confonde e toglie autostima».
Capita che qualcuno le dica che poteva accorgersene prima di sposarsi?
«Sì, e fa male. È una forma di colpevolizzazione. Io posso assumermi la responsabilità di non aver riconosciuto quei segnali, ma la colpa non è mia. La violenza non è mai colpa della vittima. E posso chiedermi “perché” per sempre, ma una risposta non arriverà».
Se suo marito fosse ancora vivo cosa gli chiederebbe?
«Gli direi solo: “Guardami, sei contento di quello che hai fatto?”. Non ci sarebbe altro da aggiungere: nulla può spiegare un gesto simile».
Com’è oggi la sua vita sentimentale?
«Non ho una relazione. La mia condizione spaventa più gli altri di quanto spaventi me. Ma non ho perso fiducia nelle persone, né nell’amore».
Ma si è più innamorata di qualcuno in questi anni?
«Sinceramente no. Ma ho imparato ad amare me stessa, a riconoscere il mio valore. Il resto se arriverà… arriverà».
© RIPRODUZIONE RISERVAT
