La Nuova Sardegna

L'intervista

Don Nicola Masedu: da Bono ai confini del mondo, l’amore per l’isola e l’abbraccio con Papa Leone

di Michele Sechi
Don Nicola Masedu: da Bono ai confini del mondo, l’amore per l’isola e l’abbraccio con Papa Leone

Il missionario con quasi 50 anni di sacerdozio racconta le esperiene in Libano, Iran, Turchia: "Ho servito Dio tra guerre e rivolte"

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«Nella vita devi imparare a inghiottire amaro ma a sputare dolce», per don Nicola Masedu questa frase, che il maestro di noviziato gli ripeteva in Libano, rappresenta idealmente il filo rosso di quasi cinquant’anni di sacerdozio e missione. «È una frase che mi porto dietro da allora – aggiunge – significa non far mancare la verità, ma cercare di restituirla sempre in maniera che non ferisca». Nato a Bono, con radici familiari a Macomer, a neanche 17 anni chiese ai genitori di poter “seguire la sua via”: diventare salesiano e mettersi a disposizione per le missioni. Dal 1964 la sua vita si è intrecciata con alcuni dei luoghi più difficili del mondo: il Libano dove studia e dove vive la guerra dei Sei Giorni, Betlemme e Gerusalemme dove viene ordinato sacerdote, poi l’Iran dello Scià e poi della rivoluzione, con arresti domiciliari ed espulsione, quindi una parentesi di due anni a Roma, sei anni a Betlemme e infine la Turchia, dove da quindici anni è parroco della cattedrale di Istanbul. Qui ha accolto Papa Francesco e, pochi giorni fa, Papa Leone XIV. «L’entusiasmo sembrava quello della domenica delle palme», racconta.

Lei ha vissuto a lungo in Iran. Cosa accadde dopo la rivoluzione?

«La situazione cambiò di colpo. All’inizio, sotto lo Scià, si stava bene. Poi, con la rivoluzione, cominciarono lettere anonime che ci intimavano di andarcene. Il giorno in cui la rivoluzione segnò ufficialmente il suo trionfo, l’11 febbraio 1979, in una sparatoria vicino alla scuola un nostro confratello venne ferito. Poco dopo fummo accusati di essere spie americane e israeliane: accuse assurde, basate sui timbri dei passaporti e sul fatto che alcuni studenti proseguivano gli studi negli Stati Uniti. Dal primo luglio al 29 agosto ci tennero agli arresti domiciliari, due mesi chiusi in casa, sorvegliati, senza poter uscire, salvo, per due confratelli, per andare dal dentista. Non ci toccarono un capello, ma era chiaro che volevano che ce ne andassimo».

Venne espulso ma poi ritornò in Iran. Cosa accadde?

«Dopo l’espulsione mi mandarono a Roma a studiare arabo e islamistica. Intanto in Iran c’erano comunità straniere – italiani, spagnoli, sudamericani, anche coreani – che chiedevano un sacerdote. Il Ministero della Guida Islamica domandò una lista di nomi e, a mia insaputa, misero anche il mio. Mi scelsero e ottenni il permesso di rientrare nel 1982».

Che vita conduceva in quegli anni?

«Ogni spostamento doveva essere autorizzato. Per andare da Teheran a Bandar Abbas, o nei cantieri degli italiani, dovevo consegnare personalmente una richiesta firmata dal vescovo: date di partenza, di rientro, motivi pastorali. E al ritorno dovevo telefonare per comunicare che ero rientrato. L’ho fatto un paio di volte, poi ho detto: “I vostri telefoni sono sempre occupati!”. L’hanno accettato. Per tre anni sono stato cappellano dei lavoratori nei cantieri, poi a Teheran insegnavo alla scuola italiana musica, religione, latino e seguivo la parrocchia francofona».

Erano classi formate da ragazzi di religioni diverse

«Nelle classi avevo musulmani, ebrei, baha’i, zoroastriani. Cristiani quasi mai. Ma il rapporto era ottimo: alcuni, dopo tanti anni, sono venuti a trovarmi qui in Turchia. È sempre una grande gioia».

Dopo l’Iran, la Turchia: che realtà ha trovato a Istanbul?

«Una convivenza serena. Abbiamo ottimi rapporti con gli ortodossi e con le autorità civili, che sono sempre state disponibili. La nostra comunità è molto variegata e questo crea un clima bello, anche faticoso a volte, ma molto ricco».

Ha incontrato tre Papi. Cosa l’ha colpita di ciascuno?

«Di Benedetto XVI ricordo la visita a Betlemme: preparai dei panini del nostro forno per lui. Di Papa Francesco mi ha colpito la spontaneità e la vicinanza ai poveri. Ricordo che l’anno seguente la sua visita, il 2 novembre, per celebrare la messa dei defunti nella cripta della cattedrale, nel cimitero sotto la chiesa, c’era anche il cardinale Hummels, il brasiliano che gli disse “ricordati dei poveri” subito dopo l’elezione. Papa Francesco, dopo la sua visita ufficiale nel 2014, ha voluto anche fare uno strappo al protocollo e tornare il giorno dopo nella nostra chiesa per incontrare migranti e rifugiati: era felice di poter stare con loro. Di Papa Leone XIV mi ha colpito, intanto, il fatto di essere il primo Papa che incontro più giovane di me, ma poi soprattutto mi ha impressionato favorevolmente sapere che era stato missionario in Perù. Qui ho accolto dei gruppi peruviani che ne parlavano entusiasti: “Il nostro Papa è stato con noi molti anni”. Mi colpisce anche il fatto che sia un agostiniano: ho molta stima degli ordini religiosi, e gli agostiniani sono tra quelli che godono del massimo rispetto. Viene da una formazione anche monastica, e in più è un canonista, un giurista: da uno così mi aspetto molto».

Che cosa le ha lasciato la visita di Leone XIV?

«Soprattutto la gioia dei parrocchiani. Io vedevo più il lato burocratico, la preparazione, le carte, ma poi ascoltando la sua omelia e il suo messaggio ho capito meglio. Molti mi chiedevano: “Che messaggio lascerà il Papa?”. E io rispondevo: “Sicuramente quello della pace, della giustizia, della convivenza pacifica e armonica tra tutti”. E così è stato. Qui, grazie a Dio, questa convivenza c’è: un buon ecumenismo, ottimi rapporti anche con le autorità civili».

Cosa le manca della Sardegna?

«Il paesaggio, senz’altro. Quando venivo dal continente, rimanevo col naso attaccato al finestrino della littorina o del treno: non mi perdevo un filo d’erba e neanche le rocce con il muschio secco addosso, le querce, i boschi. Io sono dell’interno dell’isola, quindi con l’ambiente del mare sono un po’ meno familiare, ma mi piace moltissimo. E poi i sapori: il formaggio, il mirto… Il mirto me lo sono fatto anche qui, diverse volte, perché il clima mediterraneo lo permette».

Che cosa direbbe a un giovane che sente la vocazione?

«Che nel mondo ci sono tanti maestri, buoni e cattivi. Noi ci basiamo sui valori del Vangelo: pace, giustizia, rispetto di Dio e del prossimo. La Chiesa può sbagliare, siamo peccatori, ma il mandato viene da Cristo. L’importante è ascoltare l’insegnamento giusto e non imitare i cattivi esempi».



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