La veterinaria Monica Pais: «Palla mi ha cambiato la vita, ora curo gli animali del mondo»
Intervista alla fondatrice, insieme al marito Paolo Briguglio, della Clinica Due Mari e della onlus “Effetto palla”
«Per lungo tempo ci siamo sentiti come quelli che piantavano i semi nella sabbia. Poi è arrivata Palla, e soprattutto la mia vita è cambiata. Dico che è lei che ha fatto il miracolo, la nostra lampada di Aladino. Ha allargato le mura della clinica ai confini del mondo». Monica Pais non è una veterinaria qualsiasi: dal giorno in cui ha aperto la Clinica Due Mari insieme al marito Paolo Briguglio nel 2003 a Oristano, in via Cagliari non sono passati solo i cani e i gatti “di casa”. Dal mare e dalle campagne, selvatici o domestici ma abbandonati per strada, basta che abbiano le zampe e ci sono cure per tutti. Compresa una lunga serie di animali maltrattati, come Palla, la pitbull randagia e ladra di galline che la clinica ha salvato nel 2016 da un laccio di nylon che la stringeva, senza strozzarla ma deformandole la faccia. Dalla sua storia è nata una onlus, “Effetto palla”, grazie alla quale oggi si salvano indifferentemente randagi, animali malati, maltrattati, vittime di disastri ambientali come l’incendio del Montiferru, oltre i confini dell’isola: dalla Sardegna fino al Brasile.
A cosa state lavorando ultimamente?
«Nel nuovo anno in cantiere abbiamo tantissimi progetti, a prescindere dal lavoro che facciamo già: sarà infatti il decennale di “Effetto Palla” e i festeggiamenti non possono che essere legati a iniziative benefiche. Il motore primo sarà sempre quello di recuperare il numero maggiore di “rottamini” e assicurare loro le stesse cure che vengono rivolte agli animali di proprietà».
È meno frequente oggi la crudeltà delle persone verso gli animali, c’è più sensibilità rispetto a 10 anni fa?
«No, anzi. Purtroppo non so se sia una percezione legata al nostro essere umani più attenti o al mestiere che facciamo e al fatto che ci preoccupiamo di curare molte vittime di maltrattamenti. È aumentata forse negli anni la sensibilità diffusa e la partecipazione alla cura di questi animali. Per esempio, anche in un recente caso di cronaca la denuncia per maltrattamenti è partita dal contesto familiare, questo prima era più difficile, quindi è una luce nell’oscurità generale. Ma non basta».
Cosa ci vuole per un cambiamento radicale?
«I tempi sono maturi perché se ne occupi la politica regionale in modo strutturale, prima di tutto con una legge su randagismo e vagantismo a 360 gradi, dalle microchippature alle sterilizzazioni, per andare alla formazione dei volontari, preziosissimi nel loro intervento che va valorizzato con l’organizzazione e una guida. Sono politiche molto più proficue dei milioni spesi per le celle dei canili, per esempio, ma non bastano interventi spot o circoscritti a un territorio. Mi viene in mente il grande lavoro fatto dal Comune di Quartu negli ultimi anni, anche con la nostra collaborazione. Serve un’uniformità di vedute e un progetto lungimirante tarato sul medio periodo, senza colori politici ma con il punto fermo del benessere animale».
La Sardegna può diventare un benchmark, un parametro di riferimento, da questo punto di vista?
«Ne abbiamo tutte le potenzialità, il nostro territorio è un unicum e vanta ancora una biodiversità tra flora e fauna che è un vero e proprio scrigno di gioielli. Direi che abbiamo quasi l’obbligo di intervenire con urgenza per non perdere tempo ulteriore e fare in modo di avere ancora qualcosa da tramandare alle prossime generazioni. Qualcosa di tutelato e valorizzato».
Che percezione ha della consapevolezza che hanno oggi le famiglie che adottano un animale domestico?
«C’è sempre da lavorare su quel piano, l’abbandono purtroppo è un discorso molto più ampio che l’uomo moderno vive».
In che senso?
«È un aspetto della crescita emotiva dell’individuo, e in questo momento storico particolarmente inquietante e spaventoso abbiamo tutti bisogno di distrarci, l’umano non è fatto per reggere tutto questo orrore e queste guerre. Noi curiamo cani e gatti nella massima forma dell’egoismo, perché lo facciamo per il benessere che ci provoca. E come ritorno abbiamo la soddisfazione che il nostro circuito non lascia fuori nessuno, è un circolo virtuoso dove chi lo fa sente il dovere morale di fare del bene perché ha i mezzi e gli strumenti, la capacità e la voglia. Il punto è, semplicemente, perché non farlo?».

