Morto in Venezuela il primo “pentito” sardo
Luciano Gregoriani è stato stroncato da una crisi cardiaca. Fu il primo collaboratore di giustizia nella storia del banditismo sardo. Era sparito con la famiglia nel 1986
SASSARI. Luciano Gregoriani, il primo pentito della storia del banditismo sardo, è morto a Caracas, stroncato da una crisi cardiaca. Aveva 65 anni. Figura enigmatica, con molte ambiguità, Gregoriani era svanito nel nulla nel gennaio del 1986, poco prima della sentenza d’appello del processo contro l’Anonima sequestri, portando via con se tutta la sua famiglia. Ufficialmente era un latitante (avrebbe dovuto scontare una condanna a 11 anni di carcere), ma aveva in tasca un passaporto regolare e perfino un’autorizzazione all’espatrio firmata dalla corte d’assise di Cagliari. Ricomparve nel 1998, quando i carabinieri del Ros lo scovarono in Venezuela. L’arresto era giuridicamente una cosa molto complicata perché Luciano Gregoriani era diventato nel mentre cittadino venezuelano. Ma, con un colpo di teatro, scelse di tornare in Italia di sua volontà e finì a Rebibbia. E, dopo una trattativa di cui si sa poco o nulla, svanì di nuovo. Probabilmente tornò in Sudamerica, dove ha vissuto fino alla morte.
Sulla sua seconda vita, quella che si guadagnò dopo aver stretto un “patto di collaborazione” con il giudice Luigi Lombardini, si sa poco o nulla. Solo voci vaghe. Sembra che i suoi 26 anni di “fuga” li abbia trascorsi soprattutto in Venezuela, anche se ci sono labili tracce del suo passaggio in Australia.
Ma chi era realmente Luciano Gregoriani? Quale fu il suo vero ruolo in quella drammatica partita giocata tra le bande di sequestratori, che imperversavano nell’isola tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, e il giudice duro e inflessibile Luigi Lombardini? Difficile tracciare un suo profilo nitido, definito. Perché Gregoriani, che i giornali definirono enfaticamente il “Joe Valachi sardo” e gli ex complici traditi chiamavano “Giuda” e “Gola profonda”, era stato fino ad allora un uomo invisibile.
Nato a Silanus nel 1947, si era trasferito ancora ragazzo a Santu Lussurgiu per seguire il suo datore di lavoro. Era taciturno, per certi versi sfuggente. Una vita anonima di un uomo anonimo che non frequentava i bar, che sembrava non avere amici e che mai faceva parlare di sè. In paese era come un fantasma. Si sposò molto giovane con Franca Porcu dalla quale ebbe sette figli. Faceva il camionista viaggiando in tutti i paesi dell’Alto Oristanese. Dopo qualche anno, decise di mettersi in proprio acquistando un mezzo. Ma gli affari gli andarono male.
Così dovette ricominciare tutto daccapo e si inventò allevatore di galline. Fu in quel periodo che cominciò una vita parallela, frequentando gli ambienti malavitosi dove maturavano i sequestri. E lì riuscì anche a imporre la sua personalità e una insospettata lucidità, conquistando un ruolo di un certo rilievo. Nel corso del processo di Cagliari cercò di dare una improbabile giustificazione alla sua scelta criminale: «Nel 1979 gli affari andavano a rotoli, la mia impresa di autotrasporti era a terra e le tasche erano vuote per dare da mangiare ai miei sette figli. Presidente, nei sequestri ci sono entrato per necessità».
Sorprese tutti la sua freddezza durante il processo. A “Zizzu” Serra, balente di lungo corso, che dalla gabbia gli aveva urlato «Luciano, sei un cadavere che cammina», rispose con uno sguardo di ghiaccio e abbozzò un sorriso beffardo. E, sempre nella palestra-bunker di Monte Mixi, dove si celebrava il processo, agli insulti degli imputati dentro la gabbia rispose quasi con tono di sfida: «Io sono il primo pentito dell’Anonima sequestri!».
Resta ancora oggi da capire quale fu il vero ruolo di Luciano Gregoriani. Se fu cioè uno strumento consapevole nelle mani di Lombardini, che aveva bisogno di una chiave per dimostrare l’esattezza delle sue geometrie investigative, oppure se raccontò una parte di cose vere e, per essere più credibile, vi aggiunse di sua iniziativa (e per compiacenza), dei “sentito dire” che presentò come fatti. Dei 93 imputati iniziali, solo la metà furono alla fine condannati. La risposta a questi dubbi resterà sospesa nel limbo dei “forse” e dei “se”. Perché Gregoriani la verità se l’è portata nella tomba.
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