La Nuova Sardegna

Sassari

Calvia: «Non ho ucciso Orsola Serra»

di Elena Laudante

L’imputato per il delitto dell’insegnante risponde alle domande del pm. E lancia accuse al padre della vittima e al suo ex

24 novembre 2012
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SASSARI. «Non ho ucciso Orsola Serra. Con lei avevo solo rapporti sessuali anche se voleva che ci sposassimo. Il mio Dna sul cordino usato per strangolarla? Forse qualcuno ha preso una corda dalla mia motocarrozzella per farmi incolpare, oppure è quella che usai per chiudere una busta con un pc a casa sua». La verità di Alessandro Calvia, 42 anni, imputato per l’omicidio dell’insegnante di Alghero assassinata nel suo letto il 23 ottobre 2011, emerge lenta e confusa dalla sua bocca. La voce è bassa nell’aula della Corte d’assise chiamata a giudicarlo e Calvia, si sottopone alle domande del pm Paolo Piras con tono dimesso, che poi diventerà quasi insofferente. Si siede al banco degli imputati con volto che pare di cera, barba rasata di fresco, le mani che a volte tremano. Per tre ore e mezza parla quasi sottovoce, a volte bofonchia parole incomprensibili, forse nel tentativo di sfuggire ad alcune domande del pm. Come quelle sulle “versioni alternative”, cioè il tentativo di insinuare il dubbio che a perseguitare Orsola fosse il suo ex fidanzato, quel Pietro Moretti «che la pedinava», mai finito sotto indagato perché ritenuto estraneo al delitto. E lo sconvolgente scritto su quelli che lui definisce «abusi del padre su Orsola», “segreti” affidati a un biglietto trovato in casa sua il giorno dell’arresto. Ovviamente, tesi quasi certamente calunniosa, che gli attirerà la seconda querela da parte della famiglia della vittima. Il padre Ettore e la madre Aurea sono composti e silenziosi, impeccabili nel non rispondere a quelle che potrebbero sembrare provocazioni crudeli.

Per prima cosa il pm Piras gli chiede di esprimersi sulle accuse di omicidio («Respingo l’addebito») per poi ricostruire il rapporto con la vittima. «Ci incontrammo perché io le misi una rosa rossa sotto il tergicristallo dell’auto, il 4 novembre 2010, al cimitero e un biglietto col mio nome e il numero di telefono. Lei mi chiamò - assicura - e ci incontrammo per un rapporto sessuale». Comincia una relazione fatta solo di incontri a casa dell’insegnante, che definisce «per bisogno», bisogno fisico. «Dopo poco era diventata insistente, voleva che ci sposassimo. Ma non c’era nessuna relazione perché speravo di riallacciare il rapporto con la mia ex, Anna Diana, finito pochi mesi prima». Dopo Natale, quando lei «insiste passare la vigilia assieme», si vedono di meno, lui la raggiunge a casa solo quando «mi chiamava con la scusa di qualche lavoretto da fare. Ma poi le richieste erano le stesse. Io non discutevo e me ne andavo». Orsola non demorde. «Si presentava sotto casa mia, mi inviava sms, era gelosa delle sue amiche». Le ultime discussioni coincidono con le sue ultime ore di vita. «Sabato 22, lei era nel suo garage a dipingere, era aperto e io passai in bicicletta e le dissi: c’è Pietro Moretti che ti pedina, perché l’avevo visto. Lei mi rispose: Sì, lo so. Poi entrai, lei chiuse la saracinesca e tentati un approccio sessuale. Lei si alterò, mi disse che se non andavo a vivere con lei non avremmo più fatto sesso. Allora decisi di chiudere e di prendere il pc che mi aveva prestato per ripararlo e restituirglielo, in modo da chiudere». Ma il pc non lo portò via, e il pm sottolinea l’apparente incongruenza. Tornerà il giorno seguente, ma di nuovo lo lascerà lì. «Il giorno dopo incontrai Orsola in via degli Orti, al semaforo, io in bici, lei in auto. Mi chiese di passare a casa e io ci andati alle 17». Era il 23 ottobre, giorno del delitto. «A casa parlammo delle solite cose, si alterò perché voleva che andassi a vivere con lei. Allora le chiesi una busta per portare via il pc e un laccio per chiuderla, feci un nodo al collo della busta. Ma poi andai via senza prenderla». Busta e pc mai trovati. Ma ecco come spiega la presenza del suo Dna sull’arma del delitto. Il pm allora lo incalza. «Secondo una versione alternativa, dunque, un fantomatico rapinatore sarebbe entrato e avrebbe dovuto prendere il cordino dalla busta per uccidere Orsola Serra?», chiede Piras. «Non so», è la risposta. Domande insistenti anche sul suo alibi. «Uscii da casa di Orsola alle sei meno un quarto. Andai a casa e poi all’appuntamento con Anna Diana, alle 19.30 in via Sant’Agostino. Poi andammo a prendere la pizza in via Mazzini». Qui ordinano due pizze «poi credo che tornammo a casa di Anna Diana, e ce le portarono». Ma ai carabinieri la fidanzata aveva detto che attesero le pizze d’asporto nel locale. Quando il pm glielo fa notare, lui ammette: «Non posso escluderlo». L’avvocato Danilo Mattana, difensore con Nicola Satta, sollecita un’interruzione per consentire a Calvia di prendere gli psicofarmaci; la Corte non interrompe. E allora il pm chiede conto del suo Dna sul cordino. Lui spiega: «Forse qualcuno ha preso una delle corde che usavo per cucire le reti», ipotizza riferendosi all’ex di Orsola, Moretti, pur restando sul generico. Lunedì le domande di Pietro Piras, legale di parte civile.

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