La Nuova Sardegna

Sassari

Crollo alla Rotonda di Platamona, il ferito più grave: «Sotto le macerie pensavo di morire»

di Luigi Soriga
Crollo alla Rotonda di Platamona, l'intervento dei vigili del fuoco (foto Nuvoli)
Crollo alla Rotonda di Platamona, l'intervento dei vigili del fuoco (foto Nuvoli)

Sassari, il 17enne descrive il terrore vissuto martedì. Le sue condizioni migliorano. La madre infuriata attacca le istituzioni

25 luglio 2015
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SASSARI. La madre ha gli occhi di un felino al quale hanno ferito il cucciolo. «E sarei io il genitore tranquillo, quello di cui parla il sindaco di Sassari, che l’ha presa con filosofia e non è per nulla incazzata? Io sono una iena, una iena: come lo sarebbe qualunque mamma che ha rischiato di perdere un figlio di 17 anni».

Ospedale Santissima Annunziata, sesto piano, reparto di Ortopedia. I medici hanno appena riportato in reparto uno dei minorenni rimasti feriti dopo il crollo della Rotonda di Platamona di martedì scorso. Dei sette è il più grave. Gli hanno applicato due placche di metallo per ricomporre il bacino, lo hanno tenuto due giorni in rianimazione, dopodiché lo hanno imbottito di antidolorifici e ricoverato in Ortopedia.

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Ora c’è un pellegrinaggio di amici, la mamma ha un sorriso per tutti, ma dentro ribolle il fuoco. «Basta vedere com’è ridotto, per capire come mi possa sentire».

Il racconto del ferito. La prima cosa che colpisce di lui sono gli occhi: le palpebre sono ancora gonfie e soprattutto rosse come il sangue.

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Racconta: «Quando il muretto è venuto giù io ero appoggiato di spalle, stavo mangiando un panino. D’improvviso mi sono ritrovato rannicchiato, con la faccia dentro la sabbia e sepolto da tonnellate di pietre. Avevo la terra negli occhi, la terra dentro la bocca, e un peso incredibile addosso che mi toglieva il respiro. Non riuscivo a muovere un dito, il peso era troppo e non riuscivo neanche a gridare: provavo, provavo, ma niente, non c’era verso di muovere un muscolo. Non è che sentissi dolore in quel momento, avvertivo piuttosto una sensazione insostenibile di schiacciamento e una totale impotenza. A un certo punto mi sono arreso, ho smesso di lottare, e ho pensato che stavo per morire».

E a 17 anni deve aver guardato la morte in faccia, ma così vicino da sentirne l’alito, perché la rassegnazione e la pace sono i segnali prima del capolinea. È rimasto per quasi dieci minuti sotto una valanga di massi, qualcuno da oltre un quintale. Lo hanno tirato fuori a poco a poco, pietra dopo pietra, prima le gambe, poi la schiena e infine la testa, rimasta incastrata tra un pilastro e un masso.

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Uno dei soccorritori gli parlava, per cercare di tenerlo sveglio, ma poi una calma rassegnazione lo ha avvolto come una coperta morbida, il volume delle voci è calato di dieci tacche e piano piano si è spenta la luce. Si è risvegliato su una barella, qualcuno aveva risollevato il volume, e i medici lo stavano caricando sull’ambulanza.

La madre. Ha saputo cosa era accaduto quando era nel suo ufficio. «Mi hanno detto: è crollato un muro, suo figlio è rimasto ferito, ora è all’ospedale. La polizia vuole parlare con lei. In quel momento mi sono sentita mancare, mi cedevano le gambe. Mi hanno dovuto sorreggere. Poi una mia amica mi ha accompagnato all’ospedale. Quello che ho visto non me lo posso dimenticare. Era una maschera di sabbia, in faccia, nei capelli, dappertutto. Era intubato, tutto gonfio e sporco di sangue. Ho fatto uno sforzo incredibile per non piangere davanti a lui, per ricacciare indietro le lacrime. Ero terrorizzata che avesse delle lesioni interne, che potesse restare paralizzato, così giovane, a 17 anni. Però per fortuna era cosciente, parlava, ripeteva in continuazione: com’è possibile che sia crollato, com’è possibile? Ma soprattutto sentiva dolore anche nelle gambe. Questo un po’ mi rassicurava. Non appena i medici lo hanno portato dentro e non poteva più vedermi, ho smesso di trattenere e ho pianto a dirotto».

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La paura. La mamma non ha avuto il coraggio di guardare subito le immagini dei soccorsi e nemmeno la scena del crollo. A Platamona ci è andata il giorno dopo: «Ho visto quei massi così grandi, che facevano impressione. E ho immaginato come un fisico gracile come quello di mio figlio abbia potuto sostenere tutto quel peso. Ho pensato che fosse davvero vivo per miracolo».

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Le accuse. «Ma allo stesso tempo ho pensato anche un’altra cosa: che tu puoi ricoprire le persone che ami di tutte le raccomandazioni del mondo, dire a tuo figlio di stare attento, di non fare cavolate, ma non sarà comunque mai al sicuro. E questo perché chi dovrebbe garantire la sicurezza di un luogo frequentato da migliaia di ragazzi, lo fa con assoluta superficialità. Tranne poi parlare di eventi imprevedibili, di fatalità. Le istituzioni avrebbero fatto meglio a chiedere subito scusa, o quantomeno a tacere. Io non me ne faccio niente della loro finta solidarietà, dei sindaci con la coda di paglia che si precipitano in ospedale per vedere come stanno questi poveri ragazzi. C’era mio figlio lì sotto, non i loro. E la sua unica colpa è stata quella di sentirsi al sicuro in un luogo che doveva essere sicuro, e di mangiare un panino all’ombra».

Prende una pausa, guarda il figlio con dolcezza. «Lui ha un bel carattere, è forte, non lo dà a vedere ma io so benissimo che è arrabbiato. Alla fine non serberà rancore e so che si riprenderà in fretta. Però allo stesso tempo sono sicura che certe esperienze restano e ti segnano: e a 17 anni questo non è giusto. Io invece non posso essere serena, a me ribolle il sangue, perché non accetto l’idea di aver potuto perdere un figlio in questo modo. Alla fatalità non ci credo: ci sono dei responsabili, qualcuno deve pagare e io andrò fino in fondo».

Poi va dal suo cucciolo ferito, gli sorride e gli accarezza la mano.

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