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l’opinione

Rischi da carne rossa e caffè, panico e inutile confusione

Eugenia Tognotti
Carne in vendita in un supermercato
Carne in vendita in un supermercato

L’Oms si è decisa a chiarire che l’ultima revisione dell’Agenzia internazionale di ricerca sul cancro non ha fatto che confermare «le precedenti raccomandazioni su un moderato consumo di carne conservata»

04 novembre 2015
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Tanto rumore per nulla si potrebbe dire, dopo che l’Oms, incalzata dalle proteste e delle critiche di esperti nel campo dell’epidemiologia e della statistica medica, si è decisa a chiarire che l’ultima revisione dell’Agenzia Internazionale di ricerca sul cancro (Iarc ) non ha fatto che confermare - basandosi su 800 studi scientifici esistenti - ‘ le precedenti raccomandazioni su un moderato consumo di carne conservata per ridurre il rischio di cancro’.

Aspettando che dopo l’allarme rosso sul potenziale cancerogeno di carni rosse e lavorate ci tramortiscano con le annunciate sentenze sui rischi del caffè, tornerebbe utile un’altra operazione per non rinunciare a vivere temendo di morire: procedere ad una classificazione sul potenziale effetto ‘confusiogeno’/ansiogeno delle istituzioni scientifiche internazionali. Da cui tutti - e non solo i più voraci consumatori di insaccati e carni rosse - si aspetterebbero che svolgessero al meglio il loro ruolo che è quello di valutare attentamente, su una base scientifica fondata le sostanze, gli alimenti e le attività che causano il cancro - dai pesticidi ai raggi UV - e di fornire, se possibile, la parola definitiva sui possibili rischi. Quello che è mancato in quest’ultimo Rapporto che ha gettato il panico ovunque, mostrando la confusione, i limiti e l’inefficacia nella comunicazione dei risultati.

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Basta considerare lo schema di classificazione. Il gruppo di lavoro della Iarc ha effettuato una classificazione in categorie: nel gruppo 1, che rappresenta il livello più alto, si trovano le sostanze cancerogene ben note, tra cui il fumo, l'amianto, l'alcool, e ora la carne lavorata. Per le categorie 2 A e 2 B il rapporto col cancro è meno certo. Qui occorre fare attenzione agli avverbi, per quello che serve: la carne rossa è ‘probabilmente’ cancerogena per l'uomo.

Ora, queste classificazioni si basano sulla forza delle prove, non sul grado di rischio. Il fumo e la carne lavorata sono inseriti nella stessa categoria, anche se per il primo il rischio di cancro si moltiplica e per il secondo aumenta solo di una piccola frazione. Insomma, le classificazioni non sono destinate a trasmettere ‘quanto’ pericolosa sia una cosa, ma soltanto quanto sicuri siano loro che qualcosa è pericoloso. Peccato che il linguaggio offuschi completamente questa distinzione.

Che significato, per fare un solo esempio, può avere l’affermazione secondo la quale gli esperti hanno concluso che ogni porzione di 50 grammi di carne lavorata al giorno aumenta il rischio di cancro del colon del 18 per cento? Che utilità presenta questa percentuale fuori contesto e senza il confronto con altri agenti cancerogeni del gruppo 1 come il fumo e l’amianto? E qual è il limite oltre il quale il consumo delle carni rosse e delle carni lavorate può essere considerato potenzialmente cancerogeno? La cosa migliore è quella di evitare gli eccessi e limitare il consumo, dicono in queste ore gli esperti.

Una raccomandazione vecchia di un millennio e che fa parte dei ‘sanitatis consilia’ della famosa Scuola Medica Salernitana : ‘mangia sano, mangia poco, bevi con moderazione’. Anche il caffè, ci raccomanderà, inevitabilmente, la Iarc, che sta raccogliendo studi scientifici sull’argomento e aveva già inserito nel 1991 quell’amatissima bevanda tra le sostanze potenzialmente cancerogene, mettendo in evidenza la possibilità (pur modesta) che possa provocare il cancro alla vescica.

Studio che vai, risultato che trovi. Studi recenti celebrano invece le virtù del caffè senza accennare a rischi , segnalandone la capacità di migliorare la memoria e la concentrazione. Come orientarsi e difendersi dalla comunicazione scientifica a pioggia? Basterebbe, per cominciare, che almeno le più importanti istituzioni scientifiche imparassero a comunicare il rischio, con linguaggi e modalità capaci di evitare confusione e panico.

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