La Nuova Sardegna

Sassari

Condanna a morte per i bagni promiscui multa agli stupratori

Condanna a morte per i bagni promiscui multa agli stupratori

Le severissime norme che tutelavano il senso del pudore Pena capitale ai bigami, evirato chi tradisce con una “serva”

13 novembre 2016
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SASSARI. Pudore, rispetto per la famiglia e pubblica decenza occupavano un posto importante nella Sassari medievale e il legislatore ne tiene debito conto negli Statuti. I mariti dissoluti, per esempio, potevano avere una sorte molto amara e il Codice, al riguardo, era davvero impietoso. Negli Statuti è detto, infatti, che la moglie di un uomo dedito al gioco o ad altri “vizi poco onorevoli”, aveva la possibilità di denunciarlo all’autorità giudiziaria. In quel caso, l’uomo veniva prelevato da un agente del Comune che lo portava davanti al Consiglio e al podestà i quali avviavano un procedimento da cui doveva risultare, attraverso prova o confessione, la sua colpevolezza. A quel punto tutti i suoi beni erano assegnati d’ufficio alla moglie, ma affidati a una persona onesta a garanzia della donna.

Non meno rigido era il Legislatore nei confronti dei figli disobbedienti visto che il rispetto per i genitori era tenuto in grande considerazione dalle leggi della Repubblica. Un articolo del Codice privava, infatti, dell’eredità paterna e materna tutti quei figli che non obbedivano ai genitori o che, in qualche modo, non mostravano gratitudine nei loro confronti. Ma sul piano sociale, la legge picchiava molto duro quando erano in gioco il pudore e la pubblica decenza.

All’epoca degli Statuti, vicino al monastero di Santa Elisabetta, che fino ai primi del Novecento sorgeva sulla via omonima, c’erano i bagni pubblici. Naturalmente l’accesso all’edificio era regolato da turni secondo il sesso: quattro giorni la settimana (giovedì, venerdì, sabato e domenica) erano assegnati agli uomini, tre (lunedì, martedì, mercoledì) alle donne. Coloro che venivano sorpresi in quel posto nel giorno sbagliato, andavano incontro a una sorte atroce, gli uomini venivano decapitati, le donne arse vive.

La legge, però, non era priva di contraddizioni, la violenza sessuale, infatti, era punita con una semplice pena pecuniaria che variava, da cinquanta a cento lire, secondo il censo della donna. Lo stupratore era, quindi, condannato al versamento di una somma di cui la metà andava alla donna che aveva subito violenza, l’altra alle casse del Comune. Se inadempiente, veniva decapitato. Trattamento peggiore rischiava l’uomo che avesse una relazione con una serva, in questo caso il Codice prevedeva, senza mezzi termini, l’evirazione, mentre la donna veniva marchiata su una natica con un ferro rovente, a meno che non fosse disposta a versare 200 lire entro due settimane. Il Legislatore non transigeva neanche sulla bigamia che era punita con la pena capitale, l’uomo veniva impiccato e la donna bruciata viva. Dieci lire di multa era, invece, la pena comminata all’uomo che dava del cornuto a uno sposato. Difficile stabilire il valore dei soldi in rapporto a oggi, di certo si sa che la moneta in corso ai tempi della Repubblica era la lira genovese. Enrico Costa, con un rapido calcolo, riferisce, al riguardo, che la lira di Genova equivaleva alle due lire italiane del periodo in cui scriveva il “Sassari”. (A.Me.)

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