Sassari, «Nelle Rsa si muore di solitudine»
La denuncia dei parenti degli anziani: «La privazione degli affetti può essere più letale del virus»
SASSARI. Gli anziani ammalati vivono su un filo sottile, sospesi in equilibrio precario. Basta un refolo per farli precipitare. Il Covid su di loro si è abbattuto con la sferzata di una bufera: chi è sopravvissuto al virus, rischia di morire di solitudine. Lasciate un arzillo vecchietto a fissare il soffitto per giorni, e guardate come la sua linea di vigile attenzione si appiattirà. La privazione di affetto e relazioni può essere più letale della sospensione dei medicinali. Il Covid, con le case di cura blindate e le restrizioni ai parenti, rischia di praticare una eutanasia silenziosa degli affetti. «Sono come invisibili, abbandonati e curati solo per tenerli in vita: cibo, igiene, medicine, letto. Non moriranno di Covid. Moriranno di patologie aggravate dalla disperazione, dall’isolamento. I vecchi non meritano questa condanna. Con la chiusura delle Rsa, non li stiamo tutelando. Li stiamo salvando da una parte, ma uccidendo pian piano dall’altra. Chi come me ha una mamma ricoverata in una casa di riposo, sa bene di che parlo. Anche solo chiacchierando al telefono, senza una carezza, senza il contatto umano, percepisci che la fiammella si spegne. E non c’è modo di tornare indietro. Vanno bene tutte le precauzioni anti Covid, ma non bisogna sottovalutare il deterioramento cognitivo causato dalla solitudine. La politica deve tutelare queste fragilità. Deve consentire agli anziani di vedere in qualche modo i propri cari». Clara Pani dal 15 agosto sente la mamma, ricoverata a Casa Serena, solo per telefono. Le norme emanate dalla Regione non consentono le visite dei parenti e le strutture di cure si sono adeguate.
È nato il Comitato Rsa Sassari che raccoglie diversi parenti e la volontà di far sentire il grido di dolore dei propri cari. Molti iscritti fanno riferimento a Felìcita, un’associazione che opera a livello nazionale per tutelare i malati e i loro cari: «Dopo il lockdown – dice Clara Pani – molti anziani sono rassegnati e non sperano più: ma i figli, norme alla mano, pretendono giustizia: i vecchi non sono in stato di sequestro». Prima dell’emergenza coronavirus i bioritmi delle case di riposo erano molto diversi: «Era possibile per le figlie ricoprire una madre di premure: farle tagliare i capelli, comprarle vestiti, oggetti, televisione, andare in camera o nella sala comune, o nelle pertinenze e chiacchierare. Era possibile fissare accertamenti, ulteriori visite neurologiche, fisiatriche, per migliorare il piano terapeutico in accordo con la dottoressa di base che la seguiva all’interno della struttura. Erano presenti oss e anche infermieri. Ora non ho idea di come trascorra la sua giornata e di come siano le sue effettive condizioni di salute. Questo, per un parente, è motivo di enorme angoscia. E sapere che possa ritornare una blindatura rigida come la precedente, è devastante dal punto di vista emotivo e psicologico». Racconta: «Mamma stava chiusa dentro una stanza, un giorno ho ricevuto una videochiamata fatta da un dirigente della Copas che non ha mai abbandonato i vecchietti, e mi ha fatto vedere mia madre che piangeva, e che diceva: “Vi amo, ti amo Clara! Amo tutti, anche i bambini”. Come se quello fosse un messaggio di addio, come se presagisse una fine imminente. A giugno poi talvolta vaneggiava, e allora l’ho portata da due neuropsichiatri per accertare il peggioramento: aveva allucinazioni uditive e visive. Mia madre ha varie patologie, è vero, ma la lontananza forzata degli affetti ha contribuito al suo declino».
E ancora: «Prima del Covid, c’erano attività ricreative, stimolazioni, relazioni, colori e musica, ma ora, sembra che la “chiusura” sia la sola via da percorrere per far stare in vita gli ospiti. Ma quello non è vivere, è solo sopravvivere. E un anziano non ha così tante risorse». Difficile restare in equilibrio, sul quel filo sottile, senza un figlio che stringa forte la mano.