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Sassari, il cappellano dell'Aou: «Basta egoismi, solo uniti sconfiggeremo il virus»

di Nadia Cossu
Sassari, il cappellano dell'Aou: «Basta egoismi, solo uniti sconfiggeremo il virus»

Don Paolo Mulas racconta il suo anno nei reparti covid tra pazienti e personale. «Gli operatori sono stremati e meritano rispetto, prima c’era più solidarietà»

26 aprile 2021
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SASSARI. Lui la chiama «cucina con vista», quasi come fosse un privilegio concesso a pochi eletti e del quale quindi essere grati. In realtà quella stanza, da un anno a questa parte, è diventato il suo alloggio, ai “piani alti” delle cliniche San Pietro dove ogni giorno don Paolo Mulas, 34 anni, sassarese, accende piastra, fornetto e bollitore e si prepara ad affrontare una nuova giornata nei reparti covid, tra pazienti e personale sanitario. Maschera “total face”, tuta, stivali, doppi guanti e cominciano i giri in corsia.

Don Paolo è uno dei tre sacerdoti (ci sono anche don Piero Bussu e padre Eugenio Pesenti) che tengono in piedi la cappellania dell’Aou. Lui ha passato questi dodici intensi mesi in mezzo all’inferno, ha visto uomini e donne morire, anziani e giovani. Ha pregato con i loro cari, ha fatto da tramite, in alcuni casi, per l’ultimo saluto.

«Ricordo un uomo, era ricoverato in Malattie infettive, era uno scrittore. Quando passavo da lui voleva sempre leggermi qualche pagina, io mi sedevo e lo ascoltavo, era una bella emozione. Poi lo hanno dimesso dal reparto e quindi per un po’ non l’ho più visto, ero contento perché si era ripreso. Un giorno, all’improvviso, me lo sono ritrovato in Pneumologia, non l’ho riconosciuto, era rannicchiato, dopo poco è morto...». Sono quegli eventi imprevedibili che purtroppo talvolta caratterizzano il decorso di questa malattia. Eventi che lasciano il segno.

Don Paolo in questo anno in trincea ha toccato con mano la sofferenza dei malati di covid, e anche quella di medici, infermieri, oss che lottano senza sosta. E qualche volta si è anche arrabbiato con chi ha avuto parole poco “gentili” per gli operatori sanitari: «Il personale è stremato, prima tutti riconoscevano il grande sforzo, c’era maggiore solidarietà e comprensione, si parlava addirittura di “eroi”. Ora invece c’è chi li addita come “terroristi”. Pochi per fortuna».

Perché questi medici che salvano vite hanno la grande “colpa” di mettere in guardia le persone, di spiegare cosa realmente è il covid e a quali conseguenze può portare, compresa la morte. «Finché non si capirà che il nostro egoismo ha effetti sulla vita degli altri – dice con un pizzico di amarezza il giovane sacerdote – non riusciremo a superare questa situazione». E si sofferma anche sui più piccoli: «Il disagio che stanno vivendo i bambini è enorme, mancano le forme di socialità normali e infatti sono in crescita i casi di bimbi che necessitano del neuropsichiatra infantile, anche questo vediamo negli ospedali».

Don Paolo oggi, rispetto all’inizio della pandemia, trascorre più tempo con il personale sanitario: «Da un anno – dice – queste persone lavorano incessantemente sacrificando affetti e vita personale. Nel 2020 c’era l’adrenalina, nel 2021 c’è la fatica. Oltre allo scoraggiamento. Parlo con loro, con siamo diventati amici, provo a tirarli su e mi preme che ci sia maggiore attenzione verso chi fa il loro lavoro e merita il massimo rispetto». Perché chi non vede con i propri occhi cosa accade dentro gli ospedali sembra non sia in grado di comprendere fino in fondo. «Per quanto mi riguarda posso dire che non esiste posto migliore per essere prete. Umanamente quello che ho ricevuto quest’anno è impagabile. Un’esperienza che di certo andrà riletta quando tutto questo sarà passato...».

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