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Basket/L’intervista

Antonello Restivo: «Io in sintonia con il Poz, atlete da amare»

di Antonello Palmas
Antonello Restivo: «Io in sintonia con il Poz, atlete da amare»

Parla l’allenatore della Dinamo Women: «Noi creiamo emozioni, creare empatia è la cosa più normale». L’esordio in A2 con Melillo, l’esperienza in Serbia, l’arrivo a Sassari in piena era Covid

13 maggio 2024
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Sassari Sognava una carriera da calciatore, ma a casa sua si respirava basket. Ed era scritto nelle stelle che Antonello Restivo, coach delle Dinamo Women, diventasse uno dei più apprezzati allenatori sardi, e un maestro nel femminile. «A 21 anni mi son rotto il ginocchio, ho subito due operazioni e ho smesso di giocare a basket – racconta– stimolato da Beppe Muscas, ho cominciato a dare una mano al settore tecnico della Virtus Cagliari, la società di cui mio padre Mario era presidente».

Poi ha girato l’Italia da assistente in A2 e A. «Phil Melillo terminò la carriera da giocatore a Cagliari e mi ha allenato quando ero nei cadetti all’Esperia a 16 anni. Con lui si creò un bellissimo rapporto fin da piccolo. Così quando andò via mi chiese se avessi voluto provare un’esperienza di un anno come assistente a Roseto, in A2 “e vedi se ti piace”. L’ho seguito anche a Udine (parentesi con Frates dopo l’esonero), alla Scavolini Pesaro (facemmo i quarti di Eurolega), dove sono rimasto anche con Crespi. Phil mi ha insegnato un po’ tutto. La rigidità di questo lavoro, la precisione. Oltre alle cose tecniche. È tutt’ora la persona con cui mi relaziono maggiormente».

Nel 2005 è in Serbia. «Tramite l’amicizia fraterna con Djordjevic, ex play a Pesaro, fui chiamato come collaboratore tecnico della nazionale serba per Eurobasket, grande esperienza. Poi rimasi a Belgrado come consulente tecnico al Partizan per l'Eurolega».

Succede spesso che citi suo padre Mario Restivo, perso troppo presto. «Avevo 20 anni. Ovvio che la passione sia arrivata da lui. Ho avuto sempre il rimpianto, ora un po’ metabolizzato, che non abbia potuto assistere alla mia carriera da allenatore. Sarebbe stato, e lo è, contento». Prima da head coach al Cus Cagliari, poi Selargius. «Me lo proposero a cena Vasapollo e Errica, presidente e vice del Cus. Dall'oggi al domani mi sono buttato nel femminile, per me praticamente una novità. Ci fu anche la prima storica qualificazione ai playoff di una sarda, un evento meraviglioso. Cinzia Arioli mi ha instradato aiutandomi molto a conoscere quel mondo, comunque diverso, facendomelo apprezzare. Ed ero tra quelli che pensava che il femminile fosse noioso e lento. A Selargius fecero una squadra ambiziosa, ma era l'anno in cui iniziava il Covid e si bloccò il campionato: eravamo pienamente dentro i playoff».

Poi Sassari. «Un regalo del presidente Sardara, solo lui poteva riuscire nell’impresa di creare dal nulla l’A1 a Sassari in un momento di crisi mondiale per il Covid. Ero in auto quando mi chiamò: accostai e in 5 minuti accettai. Non ci fu molto tempo per fare la squadra, con la gara-3 contro Broni arrivò una salvezza che valeva uno scudetto, un miracolo».

Da allora solo passi avanti. «La grande passione e ambizione della Dinamo ci ha permesso sempre di fare piccoli passi avanti. Al secondo anno abbiamo preso due stelle come Lucas e Shepard, poi Skoric. La prima volta in Eurocup, la prima vittoria con Friburgo. L’anno scorso forse la squadra che si ricorda di più, con l’arrivo di Makurat, Carangelo, Holmes, Gustavsson, il 4° posto e i playoff in campionato, quelli in Eurocup».

Quest’anno niente playoff in A1. «Dobbiamo capire che un club come il nostro deve ricominciare da capo perché gli portano via i pezzi migliori e provare ugualmente a fare il massimo. Io credo che lo abbiamo fatto, ma non si sarebbero dovuto perdere all’ultimo minuto certe partite. Sul campo i playoff li abbiamo anche ottenuti (allude al -20 di Roma costato punti decisivi). Certo, avremmo potuto fare di più. E in Eurocup siamo arrivati per la prima volta nella top16. Alla fine vince solo uno, ma a lavorare bene possono essere tanti. In Italia però si apprezza solo il risultato finale».

Come fa a trovare giocatrici che poi tutti vogliono? «A me piace molto guardare tutti i campionati. Passo 12 mesi su 12 a fare scouting, prendere appunti, vedere video. E grazie a miei collaboratori riusciamo a dare alle atlete la tranquillità e sicurezza per esprimersi al meglio. Elin Gustavsson in un’intervista disse che qui si trae la forza per vincere dalla convinzione che lo staff riesce a trasmettere alle giocatrici di essere più forti delle altre. È vero, è quello che predico sin dal primo incontro, ma loro devono essere breve a convincere a convincersene. Così quest'anno abbiamo battuto Bologna, sembrava inimmaginabile»

Le sue Women sono campionesse di simpatia. «Tanti bambini e bambine si affezionano alle giocatrici, accade sempre più spesso. Ed è una cosa bellissima. Perché avvertono che sono persone vere. È questa è la nostra più bella vittoria, grazie all'empatia è nato un settore giovanile di 50-60 ragazzine».

Cambierete ancora tanto? «Vogliamo provare a confermare il più possibile, una certa continuità occorre. Per ora l’unica certezza è Carangelo».

Parla sempre di ragazze da amare. «Se il nostro obiettivo alla fine è cercare di creare emozioni, i sentimenti per me sono al primo posto. Una giocatrice o un giocatore vanno amati anche nei difetti. Chi ha bisogno di una parola in più, chi in meno, chi ha bisogno di sentirsi sempre protetto. E questo lo puoi capire solo se ci si apre e si è onesti a vicenda. Quando sono arrivato a Sassari avevo già questa impostazione, mettere le persone davanti alle giocatrici. L’ho accresciuta dopo aver conosciuto Gianmarco Pozzecco. A entrambi piace toccare certe corde, amare gli atleti ed essere ricambiati. È Il segreto per farli rendere».

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