Merckx, il figlio del tuono: una vita da vero campione
In libreria la biografia del ciclista belga scritta dal giornalista Claudio Gregori. Nella storia per la sua forza ma anche per il suo coraggio e la sua audacia
Cinque Giri d'Italia, cinque Tour de France, una Vuelta a España. E per quanto riguarda le corse di un giorno, tre campionati del mondo e tutte le grandi classiche più volte. In totale 546 vittorie su strada e altre cento su pista. I numeri della carriera di Eddy Merckx sono davvero impressionanti. I risultati dicono che è lui il più forte ciclista di sempre. Al corridore belga il giornalista e scrittore Claudio Gregori ha dedicato il suo nuovo libro, pubblicato dall’editore 66thand2nd: “Merckx, il figlio del tuono” (576 pagine, 23 euro). Una ricca biografia che ripercorre vita e imprese di un mito dello sport. Nel racconto trova spazio anche il Giro di Sardegna che negli Sessanta e Settanta era una corsa importante, quella che in pratica apriva la stagione ciclistica.
Gregori, cosa rappresentava il Giro di Sardegna per Merckx ?
«Era innamorato dell’isola. Lo ha vinto quattro volte, conquistando in totale undici tappe. La cosa che mi ha entusiasmato è l’interpretazione di questa corsa, come dimostra nell’edizione del 1968. La prima tappa non era in Sardegna. Si partiva da Roma, dal Colosseo, con arrivo a Civitavecchia. Merckx a sorpresa attacca subito. Fa fuori Gimondi e resta davanti con un gruppetto di corridori. Poi a Bracciano, mancano 53 km al traguardo, riparte. Si volta per vedere chi l'ha seguito, si scopre solo e va. Arriva con oltre sei minuti di vantaggio. Uccide insomma il Giro di Sardegna alla prima tappa, prima di arrivare nell'isola. Poi non pago in una semitappa da Arbatax a Nuoro per il Passo di Genna Silana, fa un'altra cosa pazzesca. È il 28 febbraio, un'ondata di freddo porta la neve in Sardegna. Merckx è capoclassifica, chiunque al suo posto sarebbe stato al coperto. Invece attacca e arriva solo».
Era davvero così insaziabile di vittorie?
«Sì, però questo aggettivo ha una lieve sfumatura negativa. In realtà vediamo questo aspetto da un versante positivo. Nel ciclismo moderno prevale il calcolo, la prudenza, la pavidità che viene scambiata per intelligenza. Merckx rilancia il valore dell’audacia».
In questo sembra un eroe greco.
«Lo vedo un po’ come Achille. Simbolo del coraggio smisurato, con aspetti positivi anche nella sua ira».
A proposito di ira, nel libro c’è una parte intitolata “Dies irae” che riguarda una tappa del Giro di Sardegna del 1967.
«In realtà Merckx era un corridore molto corretto, però quella volta si arrabbiò. La tappa è Olbia-Sassari. Attacca con Bitossi e poi a loro si aggregano altri tre corridori tra i quali il veloce Willy Planckaert. Arrivano quindi in volata. Merckx è convinto di aver vinto, ma la vittoria è invece assegnata a Planckaert. Protesta e viene mandato via in malo modo dal giudice d’arrivo che però in serata riceve una chiamata da un fotografo che aveva scattato una foto sul traguardo dalla quale si capisce che la ruota di Merckx era davanti. Viene quindi cambiato l’ordine d’arrivo. Vince senza essere stato sul podio, senza il bacio della miss. E s. i becca pure una multa per le proteste».
Ma chi è stato il più grande avversario di Merckx?
«Ha sempre considerato Gimondi il rivale numero uno. Ma c’è un momento cruciale nel quale il ciclista italiano capisce di trovarsi di fronte a un corridore con una cilindrata più alta. La cronometro di Rosas nel Giro di Catalogna del 1968. Merckx parte poco prima, ma dopo qualche chilometro rompe una ruota. Perde tempo per il cambio e con la paura che Gimondi venga a prenderlo, forza. E stravince. Da quel momento Gimondi cambierà stile di corsa: non più l’attacco a viso aperto, ma l’attesa cercando di cogliere Merckx in un momento di debolezza».
E qualche volta è riuscito. Come nel campionato del mondo del 1973 a Barcellona, vinto dall'italiano. È quella la sconfitta più bruciante della carriera di Merckx?
«Sicuramente quella è stata molto difficile da digerire. Lì si sentì tradito da Maertens, compagno di nazionale, che non coprì la sua fuga riportando davanti in pratica Ocaña e Gimondi, che poi vinse la volata ristretta. Era un vincente e la sconfitta gli faceva male. Vigna, il suo direttore sportivo, mi ha detto che quando stava dieci giorni senza vincere diventava intrattabile».
Non ha caso il suo soprannome più noto è il Cannibale.
«Io ho preferito per il libro “Figlio del tuono” per un semplice motivo. Viene prima, dato nel 1967 da Bruno Raschi, grande giornalista della Gazzetta».
Aveva visto giusto. Merckx compirà negli anni seguenti tante imprese. Qual è la più grande?
«Da ricordare senz’altro la tappa di Mourenx, al Tour del 1969, con un assolo di 140 chilometri. Se vogliamo parlare però di prodezze in montagna lo stesso Merckx mi ha detto che la sua più alta prestazione l’ha fatta sulle Tre Cime di Lavaredo nel Giro d’Italia del 1968. Vince con 40 secondi su Polidori, ma l’ordine d’arrivo non dice che a 15 chilometri dal traguardo c’erano davanti a lui undici corridori con otto minuti di vantaggio e Merckx non soltanto li supera, ma stacca anche Gimondi, che arriva dopo sei minuti in lacrime, e Jimenez, che era lo scalatore più forte, il favorito, di oltre otto minuti».
Un campione inarrivabile, ma nel libro si scopre anche l'uomo Merckx.
«Avevo due motivi per scrivere questo libro. Il primo era quello di rilanciare l’attacco: il ciclismo è bello per l’audacia e Merckx ne è il simbolo. L’altro motivo è che di Merckx abbiamo sempre avuto un’immagine data da Cannibale. Ma è un uomo di grande sensibilità. Ha la lacrima facile e un senso sportivo grandissimo. Un uomo che crede in valori semplici ma importanti».