La Nuova Sardegna

Vita di Tupac Shakur Rap e rivoluzione raccontati a fumetti

di Fabio Canessa
Vita di Tupac Shakur Rap e rivoluzione raccontati a fumetti

Intervista con Antonio Solinas, sceneggiatore della biografia «Morì giovane in un’epoca in cui l’hip hop era ribellione»

30 novembre 2016
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SASSARI. Cantante, attivista politico, attore, figura di spicco del “gangsta rap”, fenomeno commerciale e poeta. Tupac Shakur è stato tutto questo e molto altro. Nel settembre del 1996 muore tragicamente, all’insegna di quella “Thug Life” che aveva eletto a modello di vita. A vent’anni dalla morte, avvenuta per un omicidio mai del tutto risolto, BeccoGiallo pubblica una biografia a fumetti dal titolo “Tupac Shakur. Solo Dio può giudicarmi” (144 pagine, 17 euro). Un volume che fra leggende urbane e dati biografici cerca di ricostruire la complessa parabola umana, artistica e sociale di uno dei personaggi più importanti e amati della cultura nera. I disegni sono di Paolo Gallina, la sceneggiatura del sassarese Antonio Solinas che si occupa di fumetto principalmente come editor: «L’idea – spiega Solinas – parte soprattutto dal disegnatore, che fa parte dello staff del Treviso Comic Book Festival dove il libro è stato presentato in anteprima. Tramite il direttore artistico della manifestazione sono entrato in contatto con lui e da appassionato di hip hop mi sono lasciato coinvolgere. Abbiamo poi buttato giù delle idee e convinto l’editore BeccoGiallo specializzato nella pubblicazione di biografie».

Ma quando nasce la sua passione per l’hip hop?

« È stata una folgorazione, nell’87 un amico mi aveva fatto ascoltare una compilation e quel tipo di energia, di novità rispetto alla musica dell’epoca, mi aveva colpito. Non c’era internet e quindi non era come oggi facile informarsi, coltivare certe passioni. Però ricordo i videoclip su Music Box e gli album proposti da un’etichetta specializzata, Good Stuff».

Con gli anni Novanta arriva sulla scena Tupac Shakur. Cosa la colpì allora di questo nuovo personaggio?

«Dalla California arrivano nuove sonorità. Ritmi più rilassati, funkeggianti, più musicali rispetto all’hip hop che ascoltavo prima, unite a testi più politici, crudi, al vetriolo nei confronti dei nemici, hanno attirato il mio interesse su Tupac. Che aveva la mia età, era nato nel 1971. Rispetto ad altri artisti suonava più reale. La rabbia che sentivi nel tono della sua voce sembrava rabbia vera. E in effetti la sua parabola esistenziale ha dimostrato che era così».

Come viene percepita oggi la sua figura?

«L’hip hop è molto diverso rispetto a quello di vent’anni fa. È molto più usa e getta e anche a livelli di temi è diventato più pop e meno impegnato. Forse la sua figura nelle generazioni più giovani non ha più quell’impatto che poteva avere prima, però per quanto riguarda la cultura nera in generale è diventato un personaggio parte della storia degli Stati Uniti. Per la comunità afroamericana è sicuramente un riferimento importante. Tanto più in questo momento che si preannunciano, con l’elezione di Trump, tempi non facili sulle questioni razziali».

Dal punto di vista musicale cosa lascia in eredità?

«Una discografia davvero vasta, anche se scomparso a soli 25 anni. Oltre ai cinque, sei album pubblicati quando era in vita, ne saranno usciti una ventina postumi. Viveva in studio, registrava tante cose che poi sono state fatte uscire dopo la morte».

Il suo brano preferito?

«Difficile scegliere tra tanto materiale. Certo “Dear Mama” è per me una delle canzoni d’amore più belle in senso lato. Un inno alla madre, arrivato quando era in un momento difficile, quando era diventata tossicodipendente. Un brano anche illuminante nel capire come molti problemi delle comunità nere derivino dal fatto che tanti di questi ragazzi crescono in famiglie dove non c’è una figura paterna positiva. Tutto pesa sulle spalle delle madri che cercano di fare del loro meglio, ma spesso non basta come modello di crescita».

Per questo alla storia della madre avete deciso di dare ampio spazio nelle prima pagine del libro?

«Afeni Shakur ha fatto parte delle Pantere Nere, è stata una nota attivista. Parlare un po’ di lei era un dato biografico importante sia per definire il rapporto tra Tupac e la madre, che vedeva il figlio come una sorta di messia che avrebbe salvato la comunità nera, sia per fare un’introduzione a quella che è stata la parte politica che Tupac si è portato dentro».

Ma è stato difficile rendere a fumetti la sua breve, ma complessa vita?

«Credo che il fumetto sia un medium maturo che può raccontare tutto. In questo caso ho cercato uno stile “documentaristico” che mi permettesse di arrivare anche a chi non legge fumetti, ma ha un interesse specifico nei confronti di quella musica, di quel personaggio».

Quindi nessun virtuosismo fumettistico?

«Potevano risultare fini a loro stessi e precludere la possibilità di arrivare a un pubblico più ampio possibile. Però un gioco con il disegnatore lo abbiamo fatto. Come nella musica hip hop si cerca di campionare delle musiche dando un’impronta diversa a un materiale già esistente, noi ci siamo divertiti a fare degli omaggi. Alcuni più riconoscibili, come un tributo a Frank Miller, altri più difficili da notare».

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