La Nuova Sardegna

La politica tra menzogne e insulti

di Giacomo Mameli
La politica tra menzogne e insulti

Da sinistra a destra, il linguaggio dei leader nell’analisi di uno dei maggiori semiologi italiani

20 dicembre 2017
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Nella campagna elettorale prossima ventura (tutti sappiamo che in Italia è sempre in atto, ogni anno, dal primo gennaio al 31 dicembre) ne sentiremo delle belle. Abbiamo riascoltato le solite tiritere copia-incolla sull’abbattimento di tutte le tasse o quasi ma sarà interessante osservare, decriptare il linguaggio dei politici, di qualunque gruppo facciano parte. Di ciò ha parlato alcuni giorni fa a Cagliari (facoltà di Studi umanistici) Paolo Fabbri, uno dei massimi semiologi contemporanei, conteso per conferenze tra le università degli States, dell’Asia e di quelle europee, lo studioso di Ronald Barthes, il collega-amico di Umbertto Eco, il primo giovanissimo docente di Sociologia della moda a Urbino alla fine degli anni Sessanta. Da poco ha pubblicato per Mimesis “L’efficacia semiotica”, molti capitoli sono dedicati al linguaggio dei leader o presunti tali.

È utopia pensare che un politico dica la verità?

«È solo fuori dalla realtà. Il problema della verità è l’ultimo dei problemi del politico, di ogni politico, da Manhattan alla Piazza Rossa. Oggi il primo interesse è l’efficacia. E questa non porta all’essere concreto delle cose, al debito pubblico, alle casse male in arnese, a quella che definiamo realtà. L’efficacia poggia su una serie di codici linguistici, sul loro significato. Si ricorre a un linguaggio non fatto di sole parole, ma di grammatica, sintassi, gesti, posture, azioni, retorica».

Si usa spesso il termine storytelling, quasi per incantare chi ascolta.

«Umberto Eco usava il termine abduzione, lo story telking è una copiatura anglosassone. E così si arriva all’insulto. Prima di Beppe Grillo ci aveva pensato Francesco Cossiga con le sue picconate. Così facendo il discorso politico si è fatto ricco di invettive non di concetti, non di ratio ma di suggestione. Sentiamo dire che si parla alla pancia, è come se il cervello non esistesse più».

Più d’un politico non disdegna il turpiloquio.

«Le male parole, sdoganate da tempo, escono dai bassifondi linguistici e dilagano fuori dal traffico e dagli stadi per approdare in tutte le forme di vita, politica inclusa, aule parlamentari incluse. Assistiamo alla pandemia del turpiloquio. Le canzoni popolari – dove svetta Fabri Fibra – e le colonne sonore dei film son già tutte Parolacce e musica. Non so di chi sia la primogenitura. Tendete l’orecchio a tutte le ore del giorno e della notte ai talk show e le maleparole arrivano: oscene, volgari, sporche, spinte, crude, indecorose, scurrili, empie, villane, triviali e via disdicendo».

Qual è l’aspetto che più la colpisce nel sentir tanta trivialità?

«Non solo l’insulto ma anche le sue fangose varianti: contumelie, calunnie, esecrazioni, improperi, ingiurie, molestie, offese, sberleffi, vilipendi, villanie e vituperi che traboccano dalla presenza alla tele-presenza, dall’audience ai new media e viceversa. Lo schermo si presta allo scherno e il digitale al dileggio, twitter e facebook docent. Tralasciando le varianti semiotiche – multipli gestacci, sputi, spintoni e monetine - i linguisti si interrogano sulla speciosa sintassi dell’offesa».

C’è una radice comune, qualunque sia il partito rappresentato?

«I linguaggi sono comuni a quasi tutti i leader. E non solo in Italia, anzi. Si va dall’improbabile imperativo anglosassone “fuck you!”, lo strano genitivo “quello stronzo di (nome proprio)”, all’indeclinabile plurale dei “cazzi acidi” e “amari” dell’italiano. Oltre alle categorie ruspanti negli States-hate specch, fighting words e stalking – una tipologia sommaria distingue le contumelie in descrittive, idiomatiche, enfatiche e catartiche – ma l’eccetera è numeroso. Gli estremisti di destra e di centro (leggi Lega) privilegiano metafore animali: topo da fogna, pidocchi, vermi, parassiti, capponi. Poi sono arrivati i gufi. Il consiglio: “Vaffa” è parola d’ordine e “Fanculo” il labaro d’un nuovo movimento politico che preferisce l’affronto al confronto. Nei confronti politici ci sono queste cose non i problemi della gente».

Lei ha da tempo sottolineato la metrica del dire politico e delle scritture enfatiche. Qualche esempio?

«C’è l’imbarazzo della scelta. Il caso clinico e critico di Beppe Grillo attesta la permeabilità politica all’infiltrazione di altri generi discorsivi, come quello comico. Grillo s’era già esercitato nella lapidazione verbale: Fazio era sottonominato “stuoino”, Jovanotti “curreggina”, Pino Daniele “monnezzaro”, Vasco Rossi “menomato mentale”. Donde, con risoluta continuità, Berlusconi “cavaliere dell’apocalisse” e “puttaniere”, Fornero “vispa Teresa”, Tronchetti Provera “il tronchetto della felicità”, Veronesi “uomo sandwich”. Alemanno diventa, Aledanno; Formigoni “Forminchioni”; Marchionne “Marpionne”; Pisapia “Pisapippa”. E nell’uso del soprannome: Baffino (D’Alema); Gargamella (Bersani); Mortadella (Prodi); ; Topo Gigio (Veltroni). Meno scontate di queste denominazioni sono alcune descrizioni, come “Ebetino di Firenze” (Renzi)».

Dalla semiologia alla sociologia dei massmedia: Time questa volta non ha dedicato la sua cover dell’anno a una persona ma a un gruppo, le Silence Breakers. È una riscoperta della società non del singolo?

«È il bello del giornalismo che fa cronaca. La violenza sulle donne è il fatto per eccellenza esploso negli ultimi mesi. Time ha colto l’attimo riscoprendo il collettivo. Ma in questo senso comune, in un questa simbiosi, c’è anche il tratto comune delle singole soggettività, attrici, stagiste, studentesse, giovani donne magistrato, eccetera. Dall’approfondimento soggettivo si va verso la società. Ma il collettivo oggi non esiste, detta legge soprattutto il particulare, il gruppo va costruito. Time lo ha trovato nelle Silence Breakers».

La cultura italiana senza Umberto Eco.

«Manca la sua analisi. Sapeva usare la sua immensa erudizione al momento giusto. Dire Eco era dire libro, era un uomo della grafosfera».

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