La Nuova Sardegna

Uno sguardo sulle cose pieno di speranza in un mondo migliore

di Alessandro Marongiu
Uno sguardo sulle cose pieno di speranza in un mondo migliore

Venerdì “Chiamalo pure amore” di Maria Giacobbe Col giornale il sesto volume di “Scrittori di Sardegna”

06 marzo 2018
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A non indagare neanche un po’ il contenuto o le notizie sull’autrice, insomma a stare ai meri titoli, si potrebbe pensare che “Diario di una maestrina” e “Piccole cronache” di Maria Giacobbe siano, scrive Giuseppe Marci nel 1991 nel suo “Narrativa sarda del Novecento”, «resoconti minori, effusioni sentimentali, ricordi dell’infanzia e di una prima esperienza lavorativa». «E questo sono, anche» continua l’ex docente di Letteratura italiana nelle Università di Cagliari e Sassari, «ma non solo»: a giustificare quel “non solo”, che sta in realtà per “molto più di questo”, c’è «il punto di vista attraverso il quale l’intera esperienza è filtrata», esito tanto della storia famigliare della Giacobbe quanto di «un itinerario formativo non comune, in quegli anni, né in Sardegna né altrove». Nella prima metà del secolo scorso, per Dino e Graziella, padre e madre della piccola Maria, fascismo significa antifascismo, opposizione al regime che non ammette sconti o deroghe: così, l’uno deve riparare negli Stati Uniti, e l’altra viene arrestata e imprigionata dalla polizia a causa delle sue idee.

Il profilo di intellettuale che Maria Giacobbe delinea nel 1976 nel corso di un’intervista rilasciata a Serafino Massoni per La Nuova Sardegna – «L’intellettuale non deve pensare per tutti, ma deve più degli altri sforzarsi di essere rigoroso e coerente nel suo pensare e nel suo agire» –, e al quale lei stessa aderisce da decenni, è originato lì, in quella temperie, e da quelle vicende; e sempre da lì nasce anche la sua prosa, che almeno agli inizi ha valore, più che artistico, di testimonianza di una società, quella isolana degli anni Cinquanta, che se confrontata con quella nazionale o europea sembra ferma a ere geologiche che si ritenevano sepolte.

Ciò che permette alle opere della “maestrina” di andare oltre la semplice denuncia, di assumere una fisionomia che le contraddistingue con forza e di raggiungere un’ampia platea, sono la capacità di dare direttamente voce alle persone che vi vengono raccontate, a partire dagli alunni di Oliena, Fonni e Orgosolo, e uno sguardo sulle cose che contempla sempre «fiducia e speranza» (ancora Marci) in un cambiamento positivo.

È proprio negli anni Cinquanta, o per dire meglio alla loro fine, che due eventi stabiliscono un prima e un dopo nella vita e nella carriera della nuorese, e ci riferiamo all’uscita del già citato e fortunato “Diario di una maestrina” e al trasferimento in Scandinavia al seguito del marito Uffe Harder. Frutto anche della collaborazione con “Il Mondo” di Pannunzio, il libro d’esordio pubblicato da Laterza garantisce elogi e premi (come il Viareggio e la Palma d’Oro dell’Unione Donne Italiane) e traccia la via per una professione nuova, quella della scrittura, che da allora sino a oggi ha avuto come base per ovvi motivi la Danimarca. Paese di scelta e d’adozione, ma che non ha mai dimenticato né la terra né la città di provenienza.

Rispondendo alle domande di Giusy Porru per il sito Altritaliani.net, la Giacobbe ha rivelato quanto lo spostamento nell’Europa continentale, tanto desiderato in gioventù, non sia comunque stato senza conseguenze: «Io, abitando all’estero, ho pagato il prezzo di non aver abbastanza curato il mondo editoriale italiano dal quale mano mano inevitabilmente mi sono allontanata e che mi rappresentava all’estero meglio di quello (piccolo) danese. Dopo la morte dolorosa e prematura di Mario Pannunzio e la chiusura di “Il Mondo”, mi è mancato l’ottimo canale che negli anni aveva continuato a tenermi in contatto con i lettori italiani, senza che io mi curassi di crearmene altri, anche perché mi ero concentrata sulla necessità di coltivare la mia nuova radice danese. Di questa radice facevano parte i due figli nati rispettivamente nel dicembre del ’59 e nel febbraio del ’64. Non mi “pento” di nulla, ho fatto sempre e spesso con sacrificio ciò che le circostanze mi chiedevano di fare, l’ho fatto onestamente e meglio che potessi senza mai esitare a varcare le porte aperte. L’accoglienza dei miei libri in questo paese (dove ho ricevuto i massimi riconoscimenti letterari) è stata sempre ottima, e la mia voce è stata ascoltata e anche sollecitata ogni volta che “la difesa del diverso” sia stata necessaria».

Di “radice” parla l’autrice, e “Radici” si intitola, e non è certo un caso, il suo quarto libro, che nel 1977 segue il “Diario”, “Piccole cronache” del 1961 (Laterza) e “Il mare” del 1967 (Vallecchi). Apparso in danese nel 1975, giunge in Italia per le Edizioni della Torre di Cagliari, dopo l’interruzione di una trattativa con Einaudi che chiedeva un taglio diverso, meno saggistico, per alcune porzioni del testo riguardanti la storia sarda.

Degli anni Novanta sono “I ragazzi del veliero” (Dattena, 1991), “Gli arcipelaghi” (Biblioteca del Vascello, 1995, da cui il regista Giovanni Columbu ricava un film nel 2001) e la riproposizione per le edizioni Il Maestrale di “Il mare” nel 1997. Il Maestrale che da quel momento in avanti ripubblica tutte le precedenti fatiche della Giacobbe e ne pubblica le nuove, compreso “Chiamalo pure amore” del 2008, che i lettori de La Nuova troveranno in edicola venerdì per il sesto appuntamento con la collana “Scrittori di Sardegna”.

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